Se qualche lettore ha seguito il ciclo di film di Bollywood trasmesso quest’estate su Rai Movie, ricorderà lo spettacolare “Jodhaa Akbar”, la vita e le opere di Jalaluddin Muhammad, grande imperatore della dinastia Moghul che regnò in India nel XVI secolo. Un film peraltro interessante, non solo dal punto di vista scenografico ma da quello storico, perché introduceva lo spettatore occidentale ad un mondo per lui pressoché sconosciuto. Diciamo che “Jodhaa Akbar” è stato un saporito assaggio di qualcosa di molto più consistente, che tale è la civiltà e cultura Moghul e chi intende approfondirne il senso può ora farlo visitando la raffinata mostra in corso presso la Fondazione Roma Museo a Palazzo Sciarra, “Akbar – Il grande imperatore dell’India”. Babur, discendente di Gengis Khan e Tamerlano, fu l’iniziatore della dinastia, poi venne Humayun che ebbe Akbar il quale, dopo la morte del padre, si ritrovò giovanissimo a guidare un impero in espansione. Non fu facile per lui, fra intrighi di palazzo, guerre e minacce interne al suo stesso nucleo familiare, restare indenne e sviluppare una propria linea politica. La gestione del potere è sempre difficile, più facile abusarne, tuttavia Akbar seppe comportarsi con saggezza, inflessibile con i nemici ma equilibrato nell’amministrare la giustizia. Pur quasi analfabeta fu mecenate e protettore delle arti, che sotto il suo regno prosperarono e, parimenti, vi fu una grande tolleranza sia etnica che religiosa. Lui islamico, influenzato dal misticismo Sufi, permetteva riti diversi, e anzi, nella Ibadat Khana, la Casa del Culto, appositamente costruita, amava discutere con esponenti di varie fedi, dagli hindu ai gesuiti (approdati a Goa nel 1542 con Francesco Saverio), quasi alla ricerca di una sorta di sincretismo religioso (e neanche gli atei erano esclusi). Insomma un sovrano illuminato come ce ne sono stati pochi nel corso della storia umana.
Oltre 130 opere divise in cinque sezioni a tema, il cui insieme mostra in filigrana il regno di Akbar ed il suo tempo. E subito, con “Vita a Corte, governo e politica”, ci si rende conto della fastosità ma, insieme, anche della levità di quel contesto, poiché in tutte le rappresentazioni, il verismo della scena, pur impreziosito da elementi di contorno (acquerello opaco e oro su carta), non mostra quelle ridondanze stilistiche inevitabili quando si celebra il Potere. Così è, ad esempio, per Akbar in pellegrinaggio, la nascita del figlio Salim o il ritratto di Zain Khan, di grande sobrietà (ed eleganza) nonché di una cura del particolare che rimanda alle miniature persiane. E questo appare ancora più evidente nella seconda sezione, “Città, urbanistica e ambiente”, in particolare (secondo me) ne “La costruzione della città di Fathpur Sikri” (il centro politico-religioso dell’impero) e “La costruzione del forte di Agra” (la capitale amministrativa), dove la minuziosità è davvero incredibile (quasi si percepisce la polvere sollevata dagli operai). E, per analogia, non puoi non pensare ai fiamminghi ed al loro gusto del particolare. E si prosegue nel suggestivo percorso che non illustra solo le gesta di Akbar ma narra di usi e costumi (“Punizione di una donna infedele”), mostra paesaggi stilizzati e animali (“Coturnice orientale”, “Elefanti”), parla di favole (“Il corvo indice un’assemblea degli animali”). Poi, dopo una splendida coppia di teste di leoni in bronzo dorato, per lungo tempo credute romaniche, il terzo settore, “Arti e artigianato”, con manufatti pregevoli, come un armadietto su base a tavolino con tarsie in avorio e mosaico, un paio di orecchini eseguiti in oro con incastonati rubini, diamanti e smeraldi con perle sospese, un serbatoio per pipa ad acqua in lamina d’oro, un tappeto in cotone e lana.
E passiamo alla quarta sezione, “Guerra, battaglia e caccia”, con scene di cruenti episodi bellici che si alternano alle immagini dell’imperatore o del nonno Babur in battuta, con gli elefanti in primo piano, il ciclo da “Le avventure di Hamza”, lo zio di Maometto, una celebre saga assai diffusa nel bacino indoiranico (lo stile, infatti, è un misto di persiano e hindu). E le armi, naturalmente, scimitarre, un pugnale a spinta, uno scudo con tarsie di madreperla (forse da parata). Infine la quinta sezione, “Religione e mito”, forse la più intrigante, perché mostra il clima di tolleranza che regnava nel paese (Akbar tolse la tassa di pellegrinaggio sia ai sudditi di fede hindu che islamica, cosa che lo rese molto popolare). Non sono solo i temi diciamo così “locali”, come il derviscio, il mullah o le illustrazioni dei libri sacri dell’India, come il “Ramayana” e il “Mahabharata”, ma quelli cristiani, importati dai gesuiti, a catturare l’attenzione. E’ curioso vedere un San Luca, la Natività, Gesù e la samaritana o le scene della crocifissione e pensarle eseguite da artisti moghul, che si ispiravano a modelli europei. Ma, come già detto, l’impero di Akbar faceva perno sulla tolleranza, questa era la sua forza, e lui stesso si sentiva strumento di un disegno più ampio che cercava di tradurre nella realtà quotidiana. Armonia, quale traspare dalle miniature moghul che ornano la stanza del Milione del castello di Schonbrunn, a Vienna, qui esposte nella prima sezione, segni di una cultura che nella giusta misura trovava il suo punto di equilibrio. Akbar valutava le persone per quel valevano, la meritocrazia, diremmo oggi. Proprio quello che manca – e forse è sempre mancato – nel nostro Paese. Ecco, prendiamone esempio.
“Akbar – Il grande imperatore dell’India”, Fondazione Roma Museo Palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22, fino al 3 febbraio 2013. Orario 10-20, lunedì escluso, biglietto intero 10 euro, ridotto 8. Informazioni e prenotazioni 06.39967888 e www.fondazioneromamuseo.it Con inizio il 7 novembre sono previsti un ciclo di conferenze ed una rassegna di film di produzione Bollywwod, fra i quali, ovviamente, quello su Akbar, in edizione integrale (h.21 al teatro Quirinetta). Ingresso gratuito dietro presentazione del biglietto della mostra, con prenotazione obbligatoria allo 06.697645599.
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