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L’arte e il tricolore

  Il susseguirsi di bandiere nelle vetrine, quei drappi talora sgualciti se non laceri, a testimoniare un percorso drammatico, dove le vite spesso si consumano in un attimo di gloria. Bandiere che ricordano tempi lontani ed altre più recenti, ma tutte hanno il marchio del sacrificio, tutte bagnate di sudore e sangue di generazioni che hanno vissuto la Storia. Sono tante, centinaia, in questo salone-sacrario del Vittoriano come nell’altro, sottostante, della Marina, e rievocano luoghi del Risorgimento, della Grande Guerra o dell’ultima e i nomi ti colpiscono perché ne hai letto o te ne hanno parlato i genitori o i nonni. Monte Grappa, Amba Alagi, la Marmarica, nugoli di medaglie al valore e alla memoria e capisci che solo in questa cornice era possibile la mostra che si è conclusa venerdì al Vittoriano, “Novanta artisti per una bandiera”, con la collaborazione dello Stato Maggiore della Difesa.

04 - Tommaso Cascella

  All’origine ci sono le idee giacobine e la campagna napoleonica poi, nel 1796, a Modena, la neonata Repubblica Cispadana adotta il tricolore. “Si decreta la costituzione della Confederazione Cispadana e la formazione della Legione Italiana, le cui coorti debbono avere come bandiera il vessillo bianco, rosso e verde adorna degli emblemi della libertà”. Ed è a Reggio Emilia che il tricolore diventa ufficiale, il 7 gennaio 1797. “Confermando le delibere di precedenti adunanze decretò vessillo di Stato il Tricolore, per virtù d’uomini e di tempi fatto simbolo dell’unità indissolubile della Nazione”. Nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, le vie della città emiliana divennero “Le strade della Bandiera”, ché molte ne vennero esposte per celebrare la ricorrenza. Ed ora esse ritornano confrontandosi con artisti che da esse traggono ispirazione, per un nobile scopo, donare alla città di Reggio Emilia un Ospedale della Donna e del Bambino.

  Dunque novanta fra pittori, scultori ma anche disegnatori, fumettisti ed altro, col risultato di una mostra che colpisce non solo per la sua eccezionale gamma cromatica ma per il significato intrinseco, che è quello di celebrare l’italianità. Poiché ognuno dei 90 che si cimenta con una bandiera del passato o del presente, creando quelle che in fondo sono variazioni su tema, non fa altro che scavare nel proprio sentimento nazionale per trarne immagini. E, nel complesso, sono immagini interessanti, spesso suggestive, sia solo ritoccate, sia rielaborate  magari con tecnica mista. E qui, non potendo certo citare tutti i magnifici 90 (magnifici in quanto hanno aderito subito a quest’iniziativa umanitaria), segnalo quelli che, scorrendo le bacheche dove sono esposte le loro opere, mi sembra che si distinguano in modo particolare.

01 - Antonio Segui

  Così Alberto Andreis con la sua “Aggregazione” sulla base della bandiera del Regno d’Etruria (1801-8, concesso da Napoleone ai Borbone), mentre Assadour, partendo dal drappo della Giovine Italia mazziniana, sembra trovare echi alla Depero. “Senza titolo” per il tricolore della Guardia Civica di Reggio (moti del ’31), di Davide Bennati, termine usato anche da Giovanni Campus, bandiera del Regno di Sardegna. Poi Tommaso Cascella, “Aspettando il vento”, il vessillo della Marina Militare, “Bandiera giacobina” di Bruno Chersicla, la Legione Lombarda, “I fiori e la bandiera” di Fausto De Nisco, il nascente Regno d’Italia, “Senza titolo” di Giorgio Griffa, lo stendardo dei Re d’Italia, “La bandiera di Carlo Pisacane” di Umberto Mariani, “Celebra(R.E.) la bandiera” di Nino Migliori, “Una Vis” di Gianfranco Notargiacomo, “Paesaggio cispadano” di Graziano Pompili, “Senza titolo” di Concetto Pozzati (il fazzoletto come propaganda durante la resistenza veneziana del 1849), “A la Victoria” di Antonio Seguì.

  Ma erano tutte da vedere e commentare e, dopo, scendere al sacello del Milite Ignoto. Un atto simbolico per rendere omaggio ad un paese ormai troppo spesso umiliato e ferito dalla sua stessa gente. “Come…in croce!”, installazione di Alessandro Gamba, metafora amara di questa realtà dolente, che incombe cupa come il Fato degli antichi. E allora che questa mostra diventi, per chi l’ha visitata, un auspicio per riscoprire la sua italianità: la “nostra” italianità.

cv

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