Suggestioni giapponesi
Suggestioni giapponesi
di Antonio Mazza
Il 31 marzo 1854 la convenzione di Kanegawa sancisce la fine del “Sakoku”, la chiusura del Giappone al mondo esterno, sollecitata -ed obbligata- dalla presenza nella baia di Edo delle navi da guerra americane al comando del commodoro Matthew Perry. L’apertura all’Occidente significa per il Giappone l’uscita da una sorta di lungo medioevo e la nuova èra inizia con la restaurazione del potere imperiale, il periodo Meji, che suggella lo shogunato dei Tokugawa. Tokyo è la capitale, la vecchia Edo il cui nome evoca l’omonimo e lunghissimo periodo, 1603-1868, dominato dai Tokugawa, un’autocrazia feudale che garantì al paese una stagione di pace durante la quale fiorirono le arti. Come quella raffinata e gentile degli ukiyoe, le “immagini del mondo fluttuante” realizzate con matrice di legno su carta, che rappresentano il quotidiano nel suo divenire. L’attimo del transeunte filtrato in un’accezione zen, peculiare alla cultura giapponese, come si può dedurre dalle centocinquanta opere esposte a Palazzo Braschi, nella mostra promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, coprodotta e organizzata dalla Sovrintendenza Capitolina e da MondoMostre, con il supporto di Zètema Progetto Cultura. All’inaugurazione presenti l’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, la direttrice della Direzione Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina Ilaria Miarelli Mariani, l’amministratore delegato di MondoMostre Simone Todorow di San Giorgio e la curatrice Rossella Menegazzo.
Una mostra densa e variegata che trae spunto dalle collezioni di due italiani invitati dal nuovo Giappone, Edoardo Chiossone, incisore, che introdusse l’uso della carta filigranata per la moneta locale, e Vincenzo Ragusa, ex garibaldino e scultore, che instituì una scuola d’arte occidentale a Tokyo (insieme al pittore Antonio Fontanesi e l’architetto Gian Vincenzo Cappelletti). Entrambi appassionati d’arte hanno raccolto una gran copia di materiale finito al Museo Pigorini di Roma (la collezione Ragusa) e al Museo d’Arte Orientale di Genova (la Chiossone). Due scrigni ai quali è stato attinto per realizzare qualcosa che può essere letta in chiave antropologico culturale, usi e costumi del Giappone, la sua anima zen, dove tutto tende all’armonia. E lo si comprende subito all’inizio della mostra, le “quattro arti” necessarie alla formazione personale, la cultura che affina ed educa alla vita di società: saper suonare uno strumento a corda, essere capaci nel gioco da tavolo di strategia, mostrare abilità nella calligrafia e nella pittura. Seguono, secondo il modello di scuola confuciana, la conoscenza dei rituali, gli stili di musica e danza, tiro con l’arco ed equitazione, calligrafia e matematica. Con l’arte dell’ikebana e la cerimonia del tè si raggiunge la perfezione, quel senso di raccolta simmetria che qui traspare da dipinti ed oggetti.
La storia del costume del periodo Edo è narrata da oltre trenta artisti, alcuni dei quali ben noti per mostre recenti, come Hokusai e Hiroshige. Due le grandi scuole, l’originaria Torii, che utilizzava soprattutto l’inchiostro nero, e quella Utagawa, che introdusse stilèmi occidentali, dall’uso della prospettiva alla tridimensionalità. E il blu di Prussia che dava un tocco in più ad una produzione già molto accurata e richiesta sul mercato, dai temi molteplici. Così la bellezza femminile, colta in vari momenti, nel privato come nella vita pubblica, un filone caro a Kitagawa Utamaru (“Persona padrona di sé”, “Giovani donne e inserviente raccolgono i cachi”, trittico, “il concerto del primo giorno dell’anno”, trittico). Ed è interessante confrontare i vari linguaggi, le sfumature, il segno grafico che varia anche a seconda il genere. Ad esempio drammatizzandosi quando si evoca il mondo scintoista, popolato di Kami, le divinità protettrici, e di Oni, i dèmoni (“I tre vassalli”, trittico di Utagawa Kuniyoshi). Mondo che s’identifica nella natura, il cui culto è celebrato nelle serie di ukiyoe di Hokusai (la celebre “La grande onda”, logo della mostra) e Hiroshige (I gorghi di Naruto, trittico, “I gorghi di Awa”, trittico). Da notare il minimalismo descrittivo di questi due maestri, paesaggio naturale e paesaggio umano che si fondono in una visione assoluta, quell’armonia zen cui sovrasta la maestà del monte Fuji.
Importante, come momento d’aggregazione, il teatro, soprattutto il Kabuki, più popolare rispetto all’aristocratico No, con artisti specializzati nel genere, quali Toshusai Sharaku (“L’attore Tanimura Torazo”) e Utagawa Kunisada (“L’attore Ichikawa Danjuro”). Altro punto d’incontro sono le case da tè, magari nei quartieri a luci rosse, come Yoshiwara, quartiere di Edo attivo dal 1618 al 1956, quando venne abolito dalla legge anti prostituzione che pose fine allo sfruttamento della donna imposto da una società patriarcale (degrado ben caratterizzato ne “La strada della vergogna”, 1956, del grande Kenji Mizoguchi. Ricordo anche Max Ophuls con “Yoshiwara, il quartiere delle geishe”, 1937, più melodramma esotico che film di denuncia). “Tre cortigiane di Kyoto, Osaka ed Edo”, di Okumura Toshinobu, “Spiriti della buona e cattiva fortuna nella casa di piacere Matsubaya”, di Chobunsai Eishi, “Casa da tè “Romitaggio delle 4 Stagioni a Nakasu”, di Kubo Shunman, Tre cortigiane”, di Utagawa Hiroshige II, “Veduta del piano superiore della casa da tè nel quartiere di piacere di Miyazaki a Yokohama”, dello stesso, “Cortigiana con l’ombrello”, di Keisai Eisen, “La grande voliera della casa da tè”, di Utakawa Toyokuni, la “Serie delle ore”, di Utagawa Kunisada. Ed altro ancora, tutto un filone tollerato dalla censura che si aggirava spesso ricorrendo alla caricatura, come nel caso dei bizzarri quanto simpaticissimi ukiyoe di sapore arcimboldesco di Utagawa Kuniyoshi: “Tanti uomini insieme fanno un uomo”, “Fa paura ma è veramente una buona persona”, “Una giovane che appare come un’anziana donna”.
La vita di tutti i giorni che si svolge in casa e sulla strada, alternando momenti di routine quotidiana (“Stendendo il bucato sul tetto”, di Kitagawa Utamaru), a momenti di vita pubblica, intrattenimenti popolari di strada (il lungo rotolo di Miyagawa Choshun), processioni, alle quale partecipano tutti gli strati sociali, samurai, daimyo, i signorotti locali, e le classi inferiori, contadini, mercanti, artigiani, la ricorrenza annuale (e rituale) dei ciliegi in fiore, i bagni pubblici (“Confronto di fianchi snelli come salici nella neve”, malizioso trittico di Utagawa Yoshiiku). E magari ci si può intrattenere con le “diavolerie” occidentali, come in “Bambini che si divertono osservando le immagini di vedute con il visore ottico”, di Kitagawa Utamaru. E’ tutto un mondo che l’Occidente scoprirà restandone fascinato, il “giapponismo” che influenzò non poco gli impressionisti (Monet e Van Gogh in particolare) e fu fonte d’ispirazione per l’Art Nouveau. Il Giappone non più paese lontano e misterioso ma divenuto presenza, soprattutto nelle collezioni, con le sue lacche, i suoi sgargianti kimono, i suoi stilizzati ukiyoe. E la sua profonda spiritualità zen che coglie ed interpreta l’attimo del transeunte. “Ciliegi in fiore sul far della sera/ anche quest’oggi/ è diventato ieri”, come recita un haiku di Kobayashi Issa.
“Il mondo fluttuante. Ukiyoe. Visioni dal Giappone” a Palazzo Braschi fino al 23 giugno. Da martedì a domenica h.10-19, biglietto solo mostra 15 intero 13 ridotto, mostra+museo 20 intero 16 ridotto. Per informazioni www.museodiroma.it e www.mondomostre.it
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