Ianua Inferi
Ianua Inferi
di Antonio Mazza
T’accoglie ad inizio mostra, alta, incombente, con quel groviglio di corpi che la costella ai lati, al centro, in alto, e le schiere dei Beati e dei Dannati che ne riempiono gli spazi. E’ la Porta dell’Inferno, il calco in gesso della monumentale opera di Auguste Rodin, una sorta di sintesi estetico-filosofica su quel filo rosso che attraversa la Divina Commedia. La presenza del Male, alla cui origine è un atto di presunzione e lo rappresenta bene un altro groviglio di corpi, piramidale, un marmo tutto a trafori del ‘700 di Francesco Bertos, “La caduta degli angeli ribelli”. E con essa compare la Morte, ”Muerte”, di Gil de Ronza, un legno policromo di forte impatto visivo, nel gusto cupamente penitenziale tipico della “hispanidad” (l’opera è del 1500, secolo di Autodafé e Inquisizione). E il Giudizio Finale, con il Cristo in alto, ai lati la Madonna e San Giovanni e poi il consesso dei santi e degli apostoli, al centro gli avelli da cui sono risorti quelli che sono destinati al Paradiso a sinistra e all’Inferno a destra. Un capolavoro di soave bellezza del Beato Angelico che, con le sue implicazioni teologiche espresse figurativamente introduce a quelle incise sulla pagina, ovvero gli splendidi codici miniati e i manoscritti, in particolare un “Winchester Psalter” del XII secolo, “Histoire romaine” del XV, “La cité de Dieu” di Sant’Agostino, del XV. E siamo ora alle soglie di “Inferno” la mostra ideata da Jean Clair e da lui curata insieme a Laura Bossi in corso alla Scuderie del Quirinale, omaggio a Padre Dante a settecento anni dalla morte.
In realtà è un viaggio all’interno della coscienza, perché quelle rappresentazioni del Male sono sedimentate nell’inconscio collettivo e Satana-Lucifero proietta spesso la sua ombra sul mondo. Ed è l’atroce bellezza dei quadri fiamminghi, “Inferno” di Pieter Huys, o “Visione apocalittica” di un seguace anversese di Hyeronimus Bosch, con la sua umanità lacerata dai demoni e immersa in un paesaggio di follia. Ma c’è anche la possibilità di avvicinarsi al mistero e coglierne l’ombra, come traspare da “Enea condotto dalla Sibilla Cumana all’Inferno” di Jan Brueghel il Vecchio o da “Orphée aux enfer” di Henri Régnault, d’impronta romantica. Padre Dante ha accettato di scendere fra le ombre e ne reca testimonianza lontano da Firenze che l’ha bandito (“Dante in esilio”, due tele fine ‘800 di Andrea Besteghi e Domenico Petarlini, dove appare malinconico e sdegnoso), scrivendo l’immenso poema (e qui i testi abbondano, dai manoscritti miniati fino alla Commedia illustrata da Gustavo Doré). Immagina l’Inferno come una gigantesca voragine a cerchi concentrici, la cui topografia viene riproposta in libri ed incisioni (cito “Imbuto infernale”, gesso rosso su carta di Luigi Alamanni, 1590), dove lui e Virgilio approdano con la barca di Caronte che attraversa la Palude Stigia, tutta urla e gemiti di dannati (un bel quadro di José Benliure Gil, dai turgori tardo romantici). E affrontano i nove gironi dei peccatori ( una nutrita messe di opere, fra le quali segnalo una tela di William Bouguereau, dal convulso realismo, gli acquerelli di Giovanni Stradano, le sanguigne di Federico Zuccari, le tecniche miste di Miquel Barcelò, in particolare Pier delle Vigne, ) incontrando gli sfortunati amanti di Gradara (“Francesca e Paolo nel vortice infernale”, famosa opera di Ary Scheffer).
Lucifero, demonio nella tradizione giudaico-cristiana, ma anche Lux Fer, portatore di luce, in quella greco-romana, quindi un’entità ambigua che respinge ed attrae (emblematico l’acquerello di Eugène Delacroix, “Mefistofele”). Ed anche, con tutto il suo alone di timore magico, qualcosa che incide nella cultura popolare e diventa materia di antropologia culturale (vedi i saggi di Alfonso Maria Di Nola). Il teatrino dei pupi, qui in una smagliante rappresentazione ad opera del palermitano Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino, che riprende ed amplifica il tema satanico, talvolta con tonalità ludiche (e quindi esorcistiche). Ma tentazione e peccato sono sempre fra noi e l’archetipo è un celebre quadro ripetuto nel tempo in varie versioni: “Le tentazioni di sant’Antonio”, con opere di ottima fattura, Lucas Cranach, Bernardo Parentino, Jan Brueghel il vecchio, Salvator Rosa (il demonio come un alieno alla Ridley Scott), Domenico Morelli ed una serie di litografie di matrice simbolista di Odilon Redon. E siamo ormai in epoca moderna, l’inferno non è più nelle viscere della terra ma sulla terra (un’anticipazione già era nelle “Prigioni” di Piranesi, qui esposte) provocato dalla rivoluzione industriale e da un sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E’ l’inferno delle fabbriche e l’alienazione tayloristica, della catena di montaggio, ben espressa da opere come “Interno di acciaieria” di Anders Montan,”Au pays noir” di Constantin Meunier, “Les fumées” di Pierre Paulus. Ma c’è un altro inferno più subdolo, della mente, che lo stravolgimento socioculturale dei nuovi tempi acuisce, e sono le donne in preda all’isteria dei disegni di Paul Richter che esercitava alla Salpetrière, il manicomio parigino dove Freud iniziò il suo tirocinio (è soprattutto “La pazza” di Giacomo Balla, con il suo acceso e quasi brutale cromatismo, a colpire l’attenzione).
Ma il vero inferno in terra, che toglie all’essere umano la sua innocenza (semmai l’ha avuta), è la guerra. Le magnifiche e terribili acqueforti di Goya, l’invasione della Spagna e le violenze commesse dalle truppe napoleoniche (“Los desastres de la guerra”), alle quali fanno da controcanto opere non meno crudeli nel loro realismo che narrano del Grande Carnaio della prima guerra mondiale, fra bombardamenti, gas asfissianti, morte sui campi e nelle trincee. “L’enfer” di George Leroux, “Gassed in Arduis Fidelis” di Gilbert Rogers, le atroci acqueforti di Otto Dix , di sapore espressionista (“arte degenerata” bandita dal III Reich) e quelle sconvolgenti di Percy Delf Smith, il ciclo della “Danza della morte”, di medioevale memoria, dove la Comare Secca, per dirla alla romana, alla fine sembra stupita, lei, che l’uomo possa scatenare tanto orrore. E infatti ecco l’immane tragedia della Shoah riassunta nelle pagine autografe di “Se questo è un uomo” di Primo Levi e rievocata in “Le petit camp à Buchenwald”, olio di Boris Taslitzky, e “Inferno Memoriale Dachau”, bronzo di Friz Koelle. L’orrore prosegue, è vero (The Twin Towers Ablaze”, tecnica mista di Raymond Mason), ma ora usciamo a riveder le stelle, la galassia, la via lattea e l’infinito sopra di noi e quella sottile angoscia che ha fatto come da basso continuo per tutta la mostra ora stempera e diviene, paradossalmente, “costruttiva”. Perché “Inferno” è la metafora del nostro pianeta che stiamo distruggendo, ferito ogni giorno in nome di un profitto fine a se stesso, che ignora qualsiasi parametro umano. Questo è Satana oggi e allora mi sembra emblematico “La morte della porpora”, di Georges-Antoine Rochegrosse, dramma che si consuma sullo sfondo di una civiltà che divora se stessa. Per gli antichi greci l’oceano di porpora rappresentava il ventre nel quale vita e morte si trasformano l’una nell’altra. Ecco, l’angoscia “costruttiva” di cui dicevo: scegliamo la vita, per noi e per nostra Madre Terra.
“Inferno” alle Scuderie del Quirinale fino al 23 gennaio 2022. Tutti i giorni h.9-20, biglietto intero euro 15, ridotto 13, per gli over 65 euro 10 lunedì e martedi dalle h.15. Per informazioni www.scuderiequirinale.it .
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