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Murillo, Mattia Preti e il monumento Odescalchi

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       Murillo, Mattia Preti e il monumento Odescalchi

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      La “Madonna zingara” 

 

di  Antonio Mazza

 

  “Sono innamorato della Vergine di Murillo della Galleria Corsini. La sua testa mi perseguita e i suoi occhi continuano a passarmi davanti come due lanterne danzanti”. E’ vero, ha ragione Gustave Flaubert, quello sguardo ti colpisce e ti ammalia, non puoi restare indifferente ad un’immagine sì di carattere sacro e tuttavia di una prorompente umanità. La Madonna col Bambino di Bartolomé Esteban Murillo riprende il tema squisitamente medioevale della “Virgo lactans”, la Vergine che allatta il piccolo Gesù, ma senza alcuna inflessione agiografica (come il tema imporrebbe). Lei è una florida popolana di Siviglia, sorpresa nell’attimo in cui il Bambino si è staccato dal suo seno ed entrambi sono lì a fissarti con uno sguardo quasi interrogativo.

 

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  “Madonna zingara”, la definì lo storico Carl Just, proprio per la sua tipizzazione così coloritamente plebea. Una scena di normale quotidianità ripresa con quella delicatezza di toni che decretò la fama di Murillo facendone uno degli esponenti maggiori della Scuola di Siviglia, che contava personalità di primo piano come Velazquez. Considerato un po’ il rivale di un altro importante pittore sivigliano, Francisco de Zurbaran, ai toni lineari e quasi ascetici di questi opponeva una pennellata calda e corposa. E ne risulta una composizione di dolce intensità, non solo il personaggio della Madonna ma il Bambino, tenero e paffutello, uno di quei magnifici putti per i quali Murillo era famoso. E se tutto appare bene in risalto lo si deve al preciso restauro a cura di Alessandro Cosma e finanziato dall’Associazione Civita, restauro con sorpresa finale. L’indagine radiografica ha rivelato un precedente e ancora visibile San Francesco che affiora sotto la Vergine con il Bambino, segno che la tela è stata riutilizzata usando parti del vecchio soggetto. Ed il pannello con la radiografia in grandezza naturale fa da brillante corollario a questa magnifica “Madonna zingara”.

 

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                                             Gregorio e Mattia Preti

 

  Due fratelli pittori che, da Taverna, paese calabro, approdarono nella Roma del ‘600, dove operavano gli ultimi epigoni del caravaggismo e si era ormai alla vigilia della grande stagione barocca. Qui nell’Urbe si danno subito da fare, soprattutto con quadri di genere, e dalla loro bottega escono opere destinati ai grandi collezionisti, come i Barberini, i Rospigliosi, gli Odescalchi. Molto apprezzata è una loro tela in grande formato, “Allegoria dei cinque sensi”, dove compare anche l’autoritratto di Gregorio, il fratello maggiore. E’ lui a incoraggiare Mattia “e per tirarlo avanti e mantenerlo alla pittura si mise anche a lavorare per bottegai che si erano arricchiti”, come scriveva l’erudito e collezionista Sebastiano Resta. E il risultato è più che positivo, come si può dedurre osservando “Cristo e la Cananea”, da poco restaurato dal laboratorio delle Gallerie Nazionali. Un’opera di grande respiro, nella quale appare evidente l’influsso della pittura veneziana, in particolare Tintoretto, per la densità delle masse volumetriche.

 

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  E’ al centro della sala e si raffronta con altri lavori di entrambi i fratelli, le cui differenze stilistiche balzano subito agli occhi. Così, se per Mattia la pennellata appare compatta e piena, a tratti quasi sanguigna, come nel quadro citato e nell’altrettanto robusto “La cena del ricco epulone” (un magnifico primo piano con stuzzicadenti), per Gregorio invece i tratti sono meno marcati e le figure risultano più asciutte e anche un po’ convenzionali, come in “Sant’Orsola” e le “Nozze di Cana”. D’altronde dei due il più noto resta Mattia, che a Roma si afferma con lavori notevoli (vedi “Il tributo della moneta”) nonché per gli spettacolari affreschi nell’abside di Sant’Andrea della Valle. Lavoreranno ancora insieme nella controfacciata di San Carlo ai Catinari, poi Mattia si reca a Napoli dove lascia opere importanti (con richiami a Ribera e Battistello Caracciolo) e infine Malta, che segna la sua apoteosi pittorica.

 

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                                               Il monumento Odescalchi

 

  Papa Clemente XI, ovvero Benedetto Odescalchi, il cui monumento funebre, in San Pietro, è opera dello scultore francese Pierre-Etienne Monnot. Il modello in legno e terracotta venne da lui presentato in occasione del concorso bandito dal nipote del defunto papa e risultò primo pur con avversari di tutto rispetto come Angelo De Rossi e Pierre Le Gros. In Monnot precedenza aveva realizzato un piccolo bozzetto in terracotta del monumento funebre, peraltro ben diverso da come sarebbe stato il modello definitivo, influenzato dai progetti grafici di Carlo Maratta, pittore di spicco nella Roma di Alessandro VII. Acquisito nel 2020 per le collezioni statali dalla famiglia Odescalchi il modello, in scala 1 a 5 rispetto all’originale, si presenta al visitatore con la sua veste elegante e sobriamente retorica.

 

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  Il papa è in trono assiso sul suo sarcofago con ai lati le figure allegoriche della Preghiera e della Fortezza, l’una simboleggiando il potere spirituale e l’altra quello temporale. Sorreggono il sarcofago due leoni che ritroviamo, in sembiante ridotto, nel bozzetto in terracotta conservato al museo fiorentino del Bargello e prestato per l’occasione. L’effetto visivo è notevole, proprio per quella finezza compositiva del modello e il tutto è valorizzato dalla cornice di contorno, dal bellissimo busto di Clemente X Altieri, opera del Bernini, agli apostoli del Maratta. Doveva essere un ciclo di dodici, ovviamente, commissionati dal cardinale Antonio Barberini, ma ne furono realizzati solo otto più uno di Andrea Sacchi che nel Palazzo aveva affrescato l’allegoria della Divina Sapienza. E allegorici sono pure le figure degli apostoli, come San Matteo che calpesta un sacco monete, allusione alla sua precedente professione di publicano o esattore delle imposte. “Columnae quibus stat ecclesia”, le colonne sulle quali poggia la chiesa diceva San Paolo e in effetti gli apostoli hanno davvero un che di solenne che incute rispetto. E l’impostazione classica di Maratta trova qui uno dei suoi momenti più ispirati, che si potrebbero sintetizzare nella luminosa figura di San Giovanni evangelista, il discepolo prediletto dal figlio di Maria.

 

Mostre a Palazzo Barberini:

 

“Occhi come lanterne danzanti. Storia e restauro della Madonna del latte di Murillo”, fino all’11 luglio.

 

“La Cananea restaurata. Nuove scoperte su Mattia e Gregorio Preti”, fino al 4 luglio.

 

“ Plasmare l’idea. Pierre-Etienne Monnot e il monumento Odescalchi”, fino al 4 luglio.

 

Da martedì a domenica h.10-18, euro 10 intero e 2 ridotto. Per informazioni www.barberinicorsini.org

 

                                      

 

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