Winckelmann e Roma
“La “Storia dell’arte” di Winckelmann tradotta dal Fea, nella recentissima edizione, è un’opera ricchissima: me la sono procurata subito e la trovo molto utile”. Così scriveva Goethe durante il suo soggiorno romano, ammirando quei capolavori che lo studioso prussiano aveva analizzato in maniera sistematica, facendo assumere un carattere più scientifico a ciò che fino a quel momento era stato soprattutto collezionismo. L’archeologia come disciplina nella quale il piacere estetico conserva sempre un posto d’onore ma in una cornice squisitamente museografica, dove il metodo regola tempi, modi, stili. Era questo il sogno del giovane venuto dal Nord, che qui aveva trovato una “libertà civile che negli altri stati è un’ombra a paragone di quella che si gode a Roma”. Il sogno maturato nel contatto con l’antichità classica, alla quale, folgorato dalla visione del famoso Torso e dell’Apollo situati nel Belvedere Vaticano, Winckelmann dedicò la sua vita.
La “Storia dell’arte dell’antichità” è il suo testo più famoso, un saggio fondamentale per l’epoca, poiché indicava precise linee guida, canoni a tutt’oggi ancora validi. E non pochi riconoscimenti premiarono Winckelmann, dalla nomina a membro dell’Accademia di San Luca a quello, prestigioso, di Commissario delle Antichità, nel 1763. Fu amico del cardinale Alessandro Albani, del quale cura la biblioteca e cataloga la ricca collezione nell’omonima villa sulla Salaria, e del suo connazionale Anton Raphael Mengs, pittore neo classico molto attivo a Roma (vedi l’affresco del Parnaso a Villa Albani e il soffitto della chiesa di Sant’Eusebio). La sua prima abitazione era a Palazzo Zuccari a Trinità dei Monti, “nel luogo più salubre di tutta Roma, dalla mia stanza e da tutta la casa domino tutta la città”. Di formazione culturale ellenocentrica (il Bello ideale) polemizzò con Piranesi, assertore della romanità, collaborando però con lui per quanto riguardava le antichità egizie o egittizzanti (in seguito alla venuta di Cleopatra a Roma). E dal Museo Gregoriano Egizio parte il percorso all’interno dei Musei Vaticani, con 50 opere che, nel loro diversificarsi storico-stilistico, interpretano il concetto di Antico secondo Winckelmann.
Un maestoso Osiride-Antinoo, il giovane divinizzato da Adriano, statua “lavorata secondo i principi dell’arte greca”, introduce alla sua concezione dei quattro stili fondamentali. Ovvero: l’arcaico, l’elevato (V secolo a.C., Fidia, Policleto, Alcamene), il bello (Prassitele, Lisippo, Apelle), l’arte d’imitazione (periodo ellenistico e romano). Passando per altri notevoli reperti, come un dio Anubi e statue di epoca tolemaica, si entra nel Chiaramonti e poi nel Braccio Nuovo dove compaiono splendidi gruppi marmorei come Ercole e Telefo, Domiziano, Sileno con Dioniso bambino (“d’eccellente maestria greca”), l’elaborata raffigurazione allegorica del Nilo, la famosa Atena Giustiniani.
Un maestoso Osiride-Antinoo, il giovane divinizzato da Adriano, statua “lavorata secondo i principi dell’arte greca”, introduce alla sua concezione dei quattro stili fondamentali. Ovvero: l’arcaico, l’elevato (V secolo a.C., Fidia, Policleto, Alcamene), il bello (Prassitele, Lisippo, Apelle), l’arte d’imitazione (periodo ellenistico e romano). Passando per altri notevoli reperti, come un dio Anubi e statue di epoca tolemaica, si entra nel Chiaramonti e poi nel Braccio Nuovo dove compaiono splendidi gruppi marmorei come Ercole e Telefo, Domiziano, Sileno con Dioniso bambino (“d’eccellente maestria greca”), l’elaborata raffigurazione allegorica del Nilo, la famosa Atena Giustiniani.
E siamo nel Cortile Ottagono, con l’Hermes che “a ragione è annoverata tra le statue di primissimo ordine, più per la bellezza di alcune sue parti che per la perfezione dell’insieme”. Lo raffronta con l’Apollo lì accanto, la perfetta rappresentazione del Bello ideale, nel cui volto “regna altera la maestà, qui invece la grazia della giovinezza”. Lieve e solenne formano il lievito della scultura antica e lo conferma, nel Pio Clementino, il movimentato gruppo del Lacoonte, di “nobile semplicità e quieta grandezza” con i muscoli “simili alle placid’onde di un mare tranquillo”.
Ed ecco il Torso del Belvedere con il suo “fluire ininterrotto di una forma nell’altra e i tratti mobili che, come delle onde, si alzano, si abbassano e si intrecciano l’uno nell’altro”. Di nuovo la metafora del mare ma non è solo poesia, qui come per altri reperti, perché ognuno di essi è corredato da un’attenta lettura filologica e storiografica. Seguono statue e sarcofagi (bellissimi quelli con il mito di Oreste e di Protesilao e Laodamia, di forte tensione plastica) poi, dalla galleria dei Candelabri, si passa nelle Stanze di Raffaello, dove Winckelmann percepisce il Bello ideale. Dopo una Carità del Bernini non molto apprezzata dallo studioso (definisce le sue figure “idropiche”), al contrario dell’interesse dimostrato per il bell’affresco delle Nozze Aldobrandini, alcuni pezzi pregiati come le Colonne con i Tetrarchi nella Galleria Clementina e crateri di produzione campana. Sono nel Gregoriano Etrusco, mentre in quello Profano da notare un fregio di nave che Winckelmann riferisce alla battaglia di Azio e lo squisito rilievo con Amaltea. Infine la Pinacoteca dove Winckelmann esalta Tiziano (“Nel colorito del nudo, Correggio e Tiziano sono superiori a tutti, poiché nella loro carne c’è verità e vita”) e critica il Caravaggio (“Poche sono le opere del Cravaggio e dello Spagnoletto che riguardo alle luci e alle ombre possano considerarsi belle, poiché sono contrarie alla natura stessa della luce”).
Ed ecco il Torso del Belvedere con il suo “fluire ininterrotto di una forma nell’altra e i tratti mobili che, come delle onde, si alzano, si abbassano e si intrecciano l’uno nell’altro”. Di nuovo la metafora del mare ma non è solo poesia, qui come per altri reperti, perché ognuno di essi è corredato da un’attenta lettura filologica e storiografica. Seguono statue e sarcofagi (bellissimi quelli con il mito di Oreste e di Protesilao e Laodamia, di forte tensione plastica) poi, dalla galleria dei Candelabri, si passa nelle Stanze di Raffaello, dove Winckelmann percepisce il Bello ideale. Dopo una Carità del Bernini non molto apprezzata dallo studioso (definisce le sue figure “idropiche”), al contrario dell’interesse dimostrato per il bell’affresco delle Nozze Aldobrandini, alcuni pezzi pregiati come le Colonne con i Tetrarchi nella Galleria Clementina e crateri di produzione campana. Sono nel Gregoriano Etrusco, mentre in quello Profano da notare un fregio di nave che Winckelmann riferisce alla battaglia di Azio e lo squisito rilievo con Amaltea. Infine la Pinacoteca dove Winckelmann esalta Tiziano (“Nel colorito del nudo, Correggio e Tiziano sono superiori a tutti, poiché nella loro carne c’è verità e vita”) e critica il Caravaggio (“Poche sono le opere del Cravaggio e dello Spagnoletto che riguardo alle luci e alle ombre possano considerarsi belle, poiché sono contrarie alla natura stessa della luce”).
Un percorso che, oltre a far comprendere lo spessore culturale di quello che può essere considerato il padre dell’archeologia moderna, è anche un modo diverso di scoprire o riscoprire tutto l’incredibile fascino dei Musei Vaticani. La mostra, così intelligentemente didattica, celebra nel modo giusto i 300 anni dalla nascita e i 250 dalla sua tragica morte, a Trieste. “Bisogna lavorare per la posterità, e a questo vorrei lasciare un’eredità notevole” scriveva e, in effetti, oltre ad aver improntato un’epoca (con lui e l’amico Mengs nasce il Neoclassicismo, che vedrà personalità come David, Canova, Thorvaldsen), ciò che ci ha lasciato, in termini di ricerca della Bellezza, è valido ancor oggi. Anzi, soprattutto oggi.
“Winckelmann. Capolavori diffusi nei Musei Vaticani”, fino al 9 marzo 2019, h.9-16, biglietto euro 17 intero 8 ridotto (comprensivo visita dei Musei). Per informazioni www.museivaticani.va Da segnalare il bel catalogo relativo alla mostra.
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