Nel rione Trevi, in piazza della Pilotta, dal lato opposto all’Università Gregoriana, sorge il seicentesco palazzo Mutti Papazzuri, opera dell’architetto Mattia De Rossi, allievo del Bernini. Qui, nel 1911, s’insediò il Pontificio Istituto Biblico che, fondato da Pio IX nel 1909, abbandonava i locali ormai insufficienti del Collegio Apostolico Leoniano in Prati (per l’occasione fu coniata una medaglia commemorativa). Nato inizialmente su impulso di papa Leone XIII come centro di documentazione storico sulla Terra Santa, l’archeologia quale centro motore, nel tempo si era arricchito di apporti anche diversi, articolandosi in più settori. A quello iniziale se ne affiancarono progressivamente altri, fino a giungere a quindici, un variegato insieme che ricordava molto la confusione erudita del Museo Kircheriano al Collegio Romano. Paleografia ed esposizione di minerali, numismatica ed egittologia, erbario e ceramica antica, solo qualche esempio per dare il senso di una suggestiva quanto eclettica unicità che, all’epoca, aveva come “concorrente” la famosa Collezione Gorga (esposta anni fa a Roma e da me qui recensita).
Ancora un trasloco per ragioni di spazio, anni ’80, i Musei Vaticani che accolgono le raccolte museali mentre l’imponente biblioteca rimane nell’Istituto. I settori sono sempre quindici e il ricollocamento del materiale interessa soprattutto l’etruscologia e l’egittologia che vengono decentrate nei rispettivi musei fondati da papa Gregorio XVI nel 1837 e nel 1873. Nel primo settore risulta fondamentale l’apporto della collezione Torlonia, migliaia di pezzi frutto degli scavi nell’area vulcente, necropoli di Ponte Rotto e della Polledrara, ma anche a Montopoli Sabina e Porto, dove i Torlonia avevano possedimenti. Quindi antichità etrusco-italiche, ancor oggi, malgrado la dispersione originaria, fulcro del museo gregoriano, con pezzi spesso unici e di grande bellezza. Complesso il lavoro di catalogazione e schedatura, perché non sempre facile stabilire la provenienza dei reperti, il tutto ora egregiamente riassunto nel bel volume edito dai Musei Vaticani: “Materiali etrusco-italici e greci da Vulci (scavi Gsell) e di provenienza varia”, di Ferdinando Sciacca, prefazione di Maurizio Sannibale.
Stéphan Gsell fu il sovrintendente agli scavi per conto dei Torlonia, nei terreni dove già Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone, aveva in precedenza condotto sistematiche campagne di ricerca e dove, nel 1857, Alessandro François, archeologo e commissario regio di Guerra e Marina del Granducato di Toscana scoprì la famosa tomba che porta il suo nome (gli affreschi distaccati finirono a Villa Albani, sulla Salaria, dove sono tuttora).
Di certo i Torlonia furono fascinati dal mondo etrusco e una prova visibile è emersa durante i lavori di restauro del Casino Nobile di Villa Torlonia sulla Nomentana, con la finta tomba e la sala ipogea affrescata. E fascinati restano anche i visitatori del Museo Gregoriano Etrusco, innanzi alla ricchezza e bellezza degli oggetti esposti nelle 22 sale, un percorso che inizia con la protostoria, l’età del ferro, la civiltà villanoviana, e termina con la fase romana, di conquista e assorbimento della cultura etrusca. Ed ecco gli inizi, il periodo orientalizzante, dagli ossuari alla ricostruzione con pezzi originali di una biga arcaica, con un eccezionale (e rarissimo) puntale a testa d’aquila. E il senso di sorpresa si ripete nella sala successiva, gli ori della Tomba Regolini-Galassi, il pettorale, la grande fibula da parata, i bracciali, la collana, finissimi lavori a sbalzo che denotano la grande abilità tecnica dell’oreficeria etrusca (vedi anche il ricco corredo della Tomba degli Ori, sala VII).
Non mancano altre sorprese, come il superbo Marte di Todi in bronzo, del V secolo, o la nutrita collezione di ceramica vascolare, anfore attiche a figure rosse o nere, dove ritorna speso il motivo della guerra di Troia con tutte le sue implicazioni drammatiche (evento che segna una ferita insanabile nella cultura ellenica, creando una mitologia che coinvolgerà anche quella etrusca). E poi i buccheri, le terrecotte votive, antefisse ed acroteri che ornavano i templi e le abitazioni etrusche, le urne cinerarie (notare quelle con la rappresentazione del viaggio agli inferi e del ratto di Elena), i sarcofagi fittili (Adone morente), le statue in nenfro, rocca tufacea tipica della Tuscia, infine il settore romano, con reperti anche qui di rilievo, come la statua virile in bronzo, le lastre architettoniche con le fatiche di Ercole, la bambola del V secolo d.C.
Ma sono solo alcuni fra gli esempi più significativi di un complesso museale assolutamente splendido, reso ancor più suggestivo per quello snodarsi in sale affrescate da importanti pittori della Rinascenza (Zuccari, Barocci, Daniele da Volterra). E la sensazione finale è uguale a quella descritta da Stendhal nelle sue “Passeggiate romane”: “si sente assai presto la necessità di farsi un’idea del bello antico”. Vero, alla Bellezza ci si abitua subito.
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