Ieri, oggi, il tempo fluisce rapido e sedimenta in grumi di ricordi. Sono immagini sempre più sbiadite che ognuno custodisce gelosamente in sé: persone, cose, colori, sensazioni, e su tutto posa la patina del tempo. La memoria del singolo è un paesaggio sterminato, ma quella di un nucleo umano, poniamo un quartiere cittadino, risulta ancora più vasta, in quanto polifonica, densa di prospettive. La memoria di un quartiere è memoria collettiva, che troppo spesso si perde, soprattutto in una grande città, dove si amplifica il clima di confusione antropologica che ormai stiamo vivendo da tempo. Roma questo caos lo conosce bene ed è per questo che voglio parlare del mio quartiere, facendomi interprete della sua memoria collettiva prima che scompaia, agli anziani riportando una parte di sé ed alle giovani generazioni raccontando di come eravamo molte primavere fa. La giostra gira lenta al ritmo della musica e dal suo corpo colorato sbocciano tante braccia meccaniche alle quali sono attaccati aereoplanini di metallo, uno per ogni braccio, e questi si alzano e si abbassano, a comando. Il ragazzino che sta dentro un caccia rossoverde è al suo terzo giro e, nonostante una sottile vertigine, tiene sempre la leva in posizione per volare alto. Guarda giù, alla spianata dove sono gli altri baracchini, il tiro a segno, l’autoscontro, i bambini intorno all’uomo dello zucchero filato, poi fissa più lontano, oltre la ferrovia. Pecore, un cascinale, i contadini che si apprestano a mietere il grano, perché è stagione, in lontananza, nitido nel cielo terso, il Monte Gennaro e, più a destra, le case di Tivoli. E’ un panorama vasto che si apre qui, al termine di via Livorno, l’Agro Romano, qui come innanzi a piazza Winckelman, via Michele di Lando, via Lorenzo il Magnifico o via della Lega Lombarda. E’ la periferia della città, le case si arrestano alla barriera Tiburtina, per le strade poche macchine, qualche furgone, ma soprattutto carri, quello della legna, quello del ghiaccio che rifornisce le osterie della zona, un carretto a vino, destinato a finire nei musei del folklore popolare. Noi ragazzini ci davamo battaglia a colpi di cerbottana o si andava alle giostre di via Livorno e quello che si sporge dall’aereoplanino rossoverde, lassù, sono io, in fermo immagine di un giorno qualsiasi di inizio anni ’50.
Dunque il quartiere come limite di città, con il ponentino che d’estate ruzzolava libero fra le case, oltre il nastro della ferrovia essendo tutto uno sconfinato “plein air”. Poi, come altrove in tutto il paese, con gli anni ’60 iniziò la speculazione edilizia, la corsa all’appalto, e i palazzinari cambiarono radicalmente il paesaggio, affollandolo di casermoni pigiati l’uno sull’altro. Addio venticello, aria inquinata e traffico, edifici anonimi dove la gente neanche si conosce e crescenti problemi di comunicazione, ma questo oltre la barriera Tiburtina, perché l’area di piazza Bologna, malgrado tutto, rimane ancora a misura d’uomo. E’ stata la sua particolare tipologia a preservarla, un quartiere nato negli anni ’30, generalmente palazzi con 4-5 piani, salvo viale e piazzale delle Provincie, strade come le dita di una mano e il palmo è piazza Bologna, con il sinuoso palazzo postale di Mario Ridolfi (all’epoca capolavoro di architettura razionalista e ancor oggi notevole). E, naturalmente, le case popolari, il nucleo ICP sorto nella seconda metà degli anni ‘20, con i suoi vialetti, il verde fra i palazzi, e ampi spazi per socializzare. Periferia di un tempo col sapore di un tempo, quasi una provincia a sé con i suoi codici di linguaggio che, in parte, sono rimasti immutati, anche se la generazione originaria è pressoché scomparsa. Ma quelle successive conservano ancora qualcosa, trasmessosi per tradizione orale, una sorta di patrimonio genetico del quartiere che ora si ritrova solo in frammenti sparsi, ma c’è e si sente. Chi è nato qui, come me, ha ricevuto un’educazione “di quartiere”, ovvero sin da piccolo ha imparato a confrontarsi socialmente, nel bene e nel male, certo favorito dalla tipologia urbana di cui dicevo prima, non opprimente, e dalla semplicità di ogni cosa. Era l’Italietta in canottiera degli anni ’50, di gente povera ma, nel fondo, dignitosa e onesta.
Allarghiamo lo sguardo oltre l’area di piazza Bologna, all’intero Municipio, una zona non vastissima, poco più di cinque chilometri quadrati, eppure carica di storia. Ad est c’è l’antica Roma SPQR che finiva qui, a ridosso dell’Agro Verano, al quale si giungeva passando per la bella Porta Tiburtina, sfondo di eventi drammatici (come l’assedio dei Goti di Vitige o la Guerra dei Baroni al tempo di Cola di Rienzo). Poi, risalendo nel tempo, troviamo testimonianze paleocristiane, con nuclei di catacombe disseminate nel territorio, Novaziano (in viale Regina Elena), Nicomede (via dei Villini), S.Ciriaca (basilica di S.Lorenzo), S.Ippolito (via dei Canneti), nonché il cimitero ebraico ora sotto Villa Torlonia. Segue la Roma dei papi, con la cittadella sacra di Laurentiopolis, la quale racchiude uno dei centri sacri più importanti, che nel XVI secolo diverrà mèta di pellegrinaggio nella visita filippina delle Sette Chiese, la basilica dedicata a S.Lorenzo. E risaliamo ancora nel tempo, fino ad inizio ‘800, quando, nell’Agro Verano, per editto napoleonico, nasce la Città dei Morti. Poi, nello stesso periodo, il Valadier inizia villa Torlonia, che diverrà una piccola meraviglia suburbana (soprattutto dopo la distruzione di villa Patrizi, di cui resta il toponimo). E ancora avanti, verso fine secolo, con il proliferare di edifici liberty o in stile, dal villino Duranti al villino Ximenes, a villa Blanc sulla Nomentana (qui, ad inizi ‘900, si costituirà il complesso di villa Massimo, futura sede dell’Accademia Tedesca). Ormai gli spazi di quella che sarà l’attuale III Municipio si stanno gradualmente riempiendo. Ad est è sorto e si sta espandendo il complesso del Policlinico, lungo la direttrice nord est di via Nomentana, a partire da Porta Pia, si susseguono ministeri, chiese, villini, ad ovest la ferrovia costituisce la linea di confine con l’Agro Romano, e a sud si estende il popoloso e popolare quartiere di S.Lorenzo. Al centro, in quella che sarà poi l’area del quartiere Bologna, è ancora tutto brado, per così dire (nelle mappe degli anni ’20 troviamo una via della Bologna, che collegava l’area già edificata intorno a piazza Salerno con quella che nascerà poi, cioè l’attuale piazza Bologna e dintorni).
Nella prima metà del ‘900 vengono costruite la caserma della Guardia di Finanza e le palazzine ICP, sorta di avamposti in una zona ancora di semicampagna, dove transitano le pecore e non mancano le marane. Infine, negli anni ’30, si verifica una prima e massiccia espansione edilizia, che delinea la fisionomia del quartiere, urbanisticamente razionale (rimarrà tale anche con la seconda espansione edilizia, nel dopoguerra): sorgono la Città Universitaria e la già citata area di piazza Bologna, con le chiese di S.Orsola e S.Ippolito, il mercato coperto ed il complesso di viale XXI Aprile. La barriera Tiburtina è sempre lì a far da linea di confine e lo sarà per tutti gli anni ‘50, con il quartiere dei baraccati che, dalle falde di villa Narducci, digrada verso la ferrovia. Me li ricordo bene quei casotti di legno e lamiera addossati al Campo Artiglio, dove vivevano diecine di famiglie di sfollati, gente che aveva perso la casa in un bombardamento ai Castelli o più al Sud, Cassino e dintorni (anche la zona Tiburtina era stata colpita ed uno spezzone aveva distrutto il palazzo accanto al mio, in via Lorenzo il Magnifico. Ho un ricordo nitido dell’immediato dopoguerra, io in braccio a mia madre alla finestra e, di fronte, le macerie coperte di neve). Era un mondo dominato dalle necessità quotidiane, pragmatico e manicheo, dove pensare troppo era pericoloso: bisognava sopravvivere e non potevi perderti in sofismi di sorta. Quello era un lusso per chi aveva casa e un lavoro, dunque anche tempo libero, mentre per il popolo dei baraccati la realtà era tutta bianca o tutta nera. Niente sfumature e così era il loro carattere, violento ma anche generoso, triste ma anche allegro, senza via di mezzo, sempre al limite della legalità. Molti superavano questo limite e finivano “a bottega” per qualche tempo, ma erano reati di poco conto, mentre non di rado scoppiavano risse all’interno della bidonville, frutto di un disagio sociale comune ad altre zone della periferia romana (come il borghetto Prenestino o il Mandrione). Io giocavo con i figli dei baraccati all’interno della villa, dove era il casale un tempo dei conti Narducci, una bella palazzina che in seguito verrà stupidamente abbattuta. Presi i pidocchi e ricordo mia madre che mi strofinava i capelli con batuffoli di ovatta imbevuti di DDT, raccomandandomi di stare lontano dal fuoco.
Poi questo mondo pasoliniano scomparve, i baraccati ebbero le case, lì sorse via Teodorico e, poiché era iniziato il boom economico, al grido di “all’appalto, all’appalto!” si cominciò a edificare in modo forsennato (nel dopoguerra e negli anni ’50 si era costruito poco, riempiendo gli spazi verso la ferrovia, come ad esempio lo sterrato della futura via Squarcialupo. Pochi gli interventi di rilievo: fra questi l’agile chiesa dei Martiri Canadesi, di Apollonj-Ghetti). Il quieto profilo della barriera Tiburtina, con il suo palazzone dei ferrovieri e, dietro, quella sorta di silos immersi nella campagna, venne sconvolto in pochi anni. E via pecore, contadini, cave di tufo e/o fungaie, cascinali, torme di monelli che si affrontavano a colpi di fionda, via tutto in nome di un’edilizia intensiva che ben poco si curava del territorio e men che mai di dare “respiro” a chi veniva ad abitare lì (ma era l’arida logica palazzinara di quegli anni, tesa solo a far profitto). Ne risultò una vasta area costipata, che, in futuro, il traffico renderà ancora più compressa, mentre, di qua della barriera Tiburtina, con gli spazi che già all’origine erano funzionali, si ragiona meglio. Così il nostro quartiere si sviluppa e cresce nelle sue strade dai nomi di personaggi medioevali e storici in generale, di medici e ricercatori, di città italiane, magari abolendo qualche nome scomodo, come viale Alfredo Rocco, nel ’42 progettato come una delle arterie più importanti della zona (poi è seguita la “damnatio memoriae” alla caduta del regime). Si comunica, il rapporto umano non è difficile in palazzi di pochi piani e poi ci sono i due mercati di quartiere, da sempre punto nodale dell’interscambio a livello personale e collettivo. Almeno questo è quanto avveniva fino ad anni recenti e, tutto sommato, ancora continua, in virtù di quella particolare geografia del quartiere cui ho accennato più volte. Qualcosa è comunque cambiato, si comunica, certo, ma più nella forma che nella sostanza, i rapporti umani sono inquinati come altrove e tuttavia il dialogo, pur talora flebile, c’è. Sulla scena ha fatto irruzione la componente etnica diversa, peraltro molto variegata, e questo ha creato e crea problemi, come vediamo in quella no-zone che è divenuta la stazione Tiburtina. E ci sono poi altri punti nevralgici del quartiere, aree di forte disagio sociale a massiccia componente extracomunitaria, nonché un (per ora) contenuto fenomeno di teppismo urbano e il tutto si aggiunge ai problemi endemici del quartiere. Allora quali sono le prospettive dell’area di piazza Bologna e dell’intero Municipio in quest’inizio millennio?
Io parto dalla mia realtà, quella della strada nella quale abito, via Eleonora d’Arborea, dove ci conosciamo un po’ tutti e dove si comunica come avveniva in tempi non certo lontani e come ora, in città, si fa sempre meno (qui nei palazzi permane ancora la vecchia, sana abitudine del saluto e in molti c’è il portiere, la cui figura di mediatore facilita il contatto umano). Una strada anche interetnica, con il pizzettaio cinese e il fruttivendolo egiziano e il dialogo che con loro è limpido e senza preconcetti. Ecco, la mia strada come un microcosmo, piccolo campione per iniziare qualcosa di nuovo, tutto da sperimentare. Perché no?
Scritto da: Antonio Mazzain data: 4 giugno 2017.il25 giugno 2017.
il tempo,
trasforma e trasfigura immagini e ricordi che la storia racconata tenta di immortalare, ma, che comunque cambia i luoghi e gli uomini. Cambiano le generazioni, ma gli stessi ricordi li avranno quelli che sono in periferia oggi come lo erano i ragazzini di ieri. Finchè il centro non si espanderà ed anche loro racconteranno di quando erano in periferia.
il tempo,
trasforma e trasfigura immagini e ricordi che la storia racconata tenta di immortalare, ma, che comunque cambia i luoghi e gli uomini. Cambiano le generazioni, ma gli stessi ricordi li avranno quelli che sono in periferia oggi come lo erano i ragazzini di ieri. Finchè il centro non si espanderà ed anche loro racconteranno di quando erano in periferia.