Claudio Monteverdi, uno dei grandi innovatori della musica italiana agli inizi del XVII secolo, quando furono gettati i semi del “bel canto”, la culla dell’opera moderna. I suoi madrigali, che qualcuno giudicò “aspri et all’udito poco piacevoli”, con il loro stile assolutamente inedito segnavano il passaggio da un’epoca dominata dalla polifonia ad un’altra dove si sarebbe imposto, sia pure con accenti diversi, il canto monodico. Monteverdi fu il grande protagonista di una tale evoluzione, che derivava dai canoni della “Seconda prattica”, cioè il prevalere del testo sulla musica, ovvero l’armonioso integrarsi delle parole nella melodia, come teorizzato da Peri e Caccini, membri della fiorentina “Camerata dei Bardi” (al contrario della “Prima prattica”, il vecchio stile polifonico). Monteverdi si forma in questo clima e ne trasfonde i toni e gli umori anche nella sua produzione sacra, realizzando quel capolavoro che è il Vespro della Beata Vergine (1610), riproposto nella Basilica di Santa Maria in Portico in Campitelli dalla Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli e dall’Ensemble La Cantoria diretto da Vincenzo Di Betta.
“Deus in adjutorum”, il verso di apertura in canto piano, ed è subito una sgargiante efflorescenza di voci e musica, un che di sontuoso (come era abituale a San Marco, gli ori della Scuola Veneziana), ma non pesante o retorico, Anzi, perché gli schemi monteverdiani non sono univoci, alternando i momenti espressivi nella forma non meno che nei contenuti. E’ la peculiarità del musicista cremonese, la diversificazione dei moduli narrativi, come appare evidente sia nell’introduttivo “Domine ad adjuvandum”, dove nel contesto sacro fa capolino una cadenza da musica di corte (d’altronde era prima stato alla corte dei Gonzaga), sia nel brano successivo, il salmo “Dixit Dominus”, dove l’iniziale clima di raccoglimento si apre a ventaglio ed è un rincorrersi e sovrapporsi di voci in un modulato che crea reiterati effetti cromatici. E qui è un po’ il cuore dei Vespri, in quel trascolorare continuo di toni, dove il “pieno” succede allo sfumato, come nel salmo “Laudate pueri”, trionfale ed al contempo meditativo.
E’ la particolare magìa monteverdiana, un insieme voce-musica che seduce l’ascoltatore per la varietà linguistica non meno che per l’eleganza dello stile. E se questo appare mutuato direttamente dal madrigale, genere in cui Monteverdi era maestro, la struttura generale del “Vespro” propone un lessico nuovo. La commistione espressiva, la fusione di più generi, dalla cantata al mottetto, alla sonata, con gli intermezzi in gregoriano che legano il tutto accentuandone il carattere sacro. Le antifone in canto piano anticipano i salmi la cui caratteristica è il procedere con una sorta di movimento oscillatorio, dove la parte vocale ha il ruolo di protagonista, nel canto pieno, a gola spiegata, per così dire (“Lauda Jerusalem”), come nel modulato che talora diventa ricamo alla veneziana, trine e merletto (taluni passaggi solisti del già citato “Laudate pueri” e momenti di “Ave Maris Stella”). E davvero nel “Magnificat” finale è il coro degli angeli, una gloria di suoni, voci, richiami, una ghirlanda posta sul capo della Vergine (e sull’altare si venera appunto un’antica icona mariana).
Dunque un monumento della musica sacra che, non avendo Monteverdi dato chiare indicazioni sui modi di esecuzione strumentale, specificando solo la parte corale, può essere interpretato sia da una grande orchestra che da un organico più ristretto. Un ensemble, come nel nostro caso, “La Cantoria”, che si è ormai specializzata nel repertorio barocco e qui cito la “Messa de morti a cinque voci concertata” (1653) di Bonaventura Rubino da me recensita l’anno scorso (e si annuncia un prossimo cd con la grandiosa “Missa in Angustia Pestilentiae”, di Orazio Benevoli).
Un’esecuzione non facile, per la struttura in sé, nella sua articolata componente vocale e sonora e, soprattutto, per quel trascolorare di cui dicevo prima, dove intimo e solenne si alternano e dialogano fra loro. E di qui scaturisce la religiosità monteverdiana la cui essenza La Cantoria ha saputo cogliere in pieno. Non potendo nominare tutti (ben quaranta elementi, fra coro, soli e strumentisti) mi associo al calore sincero del pubblico che ha festeggiato questa limpido e solare (perché i “Vespri” è un canto di luce) capolavoro del musicista di Cremona, grazie anche alla sobria ed elegante direzione del maestro Vincenzo Di Betta.
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