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Artemisia Gentileschi

320px-artemisia_gentileschi_selfportrait_martyr  “Una donna: proprio quello che una fanciulla non ha voglia di diventare”. E’ un passo del bel libro di Anna Banti dedicato alla figura di Artemisia Gentileschi, biografia romanzata di una grande pittrice romana del XVII secolo. La sua formazione avviene nella bottega paterna (Orazio, influenzato, come tutti, dal luminismo caravaggesco) e, a soli 18 anni, realizza un capolavoro come “Susanna e i vecchioni” (in mostra). La plasticità delle figure, il morbido contrasto cromatico, il gioco di luci, tutto è però destinato, nelle opere successive, ad assumere tonalità brusche, violente. A 19 anni Artemisia subisce violenza da parte di Agostino Tassi, pittore paesaggista che frequenta la bottega e, dopo la supplica inviata dal padre Orazio a papa Paolo V per ottenere giustizia, segue un lungo processo. Agostino viene condannato all’esilio ma se la cava con poco o nulla, Artemisia sposa Vincenzo Stiattesi, modesto pittore fiorentino (una sorta di matrimonio riparatore), e continua a dipingere, ma qualcosa è mutato in lei, come donna e come artista.

  La fanciulla diventa donna e tutto s’inasprisce, pur non venendo mai meno una certa tenerezza di fondo, come risulta dalla visione delle opere in mostra a Palazzo Braschi, 29 su 100, perché viene documentato anche il complesso contesto nel quale Artemisia svolge la sua attività, con intrecci, influssi, richiami. E se un lavoro come “Danae”, morbido e sensuale, suggerisce un che di armonico, “Giuditta e la fantesca Abra”, di poco successivo, introduce l’elemento di brutalità con la serva che reca nel cesto il capo di Oloferne. Ma è una violenza ancora contenuta nell’atteggiamento composto delle donne, una violenza che invece si farà esplicita nelle due versioni di “Giuditta decapita Oloferne”, una a Capodimonte (qui in mostra da febbraio) e l’altra agli Uffizi (in termini freudiani si potrebbe parlare di desiderio di castrazione per l’affronto subito). Ma c’è anche un momento di serenità, un intenso “Autoritratto come suonatrice di liuto”, lei come aspira ad essere, non solo come artista ma come donna. Tutte Opere che appartengono al periodo toscano, quando Artemisia ed il marito si stabiliscono a Firenze e lei entra nelle grazie di Cosimo II de’ Medici, uomo colto e raffinato che ha reso la sua città un laboratorio d’arte. Cuore pulsante ne è la Camerata de’Bardi, musica, teatro (il “recitar cantando”), ma anche la pittura svolge un ruolo non indifferente, grazie al mecenatismo di Cosimo.

  Per lui dipinge uno dei massimi esponenti della Scuola Napoletana, Battistello Caracciolo, presente con uno splendido “Noli me tangere”, dove le suggestioni caravaggesche assumono tonalità quasi ieratiche. Ed altri pittori di rilievo, come Filippo Tarchiani, già allievo del padre Orazio, con la “Pietà” e “Apollo che scortica Marsia”, di sobria fattura malgrado la drammaticità del racconto, o Cristofano Allori, con il fascinoso “Giuditta con la testa di Oloferne”. Peraltro questo è un tema frequente nella pittura non solo italiana del ‘500-‘600  (ma anche prima, vedi Botticellli e Mantegna), ripreso da molti pittori che qui fanno compagnia ad Artemisia. Amica di Galileo, conosciuto nel cenacolo che ruota intorno alla figura di Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del grande Michelangelo, Artemisia s’integra perfettamente nella vita artistica fiorentina. La pittura toscana la  influenza e, al contempo, viene da lei influenzata, come dimostrano alcuni accostamenti stilistici (l’Empoli con “San Giuliano”). Lei lavora molto, decora  Casa Buonarroti insieme ad altri pittori (alcuni presenti in mostra, Tarchiani, Bilivert, Furini, l’Empoli) e realizza opere notevoli come “Aurora”, dove la figura femminile esprime un senso panico di libertà (e questo suo magnifico gioco di contrasti in chiaroscuro lascerà una traccia nella pittura fiorentina del ‘600). Nel 1616 viene ammessa alla “Accademia del disegno”,

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  Tornata a Roma, dove abita in via del Corso, città che è anch’essa un cantiere d’arte, realizza ritratti di nobili ma sviluppa anche temi storici e biblici, “La morte di Cleopatra”, “Medea”, “Giaele e Sisara”, dove si avvertono echi delle tonalità caravaggesche di Carlo Saraceni unite all’eleganza barocca di Simone Vouet (di lui in mostra una densa “Circoncisione”). E poi Napoli, immersa in un milieu artistico di prim’ordine, che interpreta a più voci la lezione del Caravaggio (il Pio Monte della Misericordia): dal naturalismo del Ribera (“Lucrezia”, “Compianto sul Cristo morto”) al classicismo dello Stanzione (“Loth e le figlie”). E poi ancora Andrea Vaccaro (“Giuditta”), Francesco Guarino (“Maria Maddalena pentita”), Bernardo Cavallino (“Santa Lucia”), Filippo Vitale (“Giuditta mozza la testa di Oloferne”) e il già citato Battistello Caracciolo (insieme al quale dipinse “Loth e le figlie”). Nel napoletano Artemisia dà il meglio di sé, il dolcissimo “Lasciate che i pargoli vengano a me”, una sobria “Annunciazione”, un’intimistico “Nascita di San Giovanni Battista”, una morbida “Cleopatra”, ma anche un’inquietante “Corisca e il satiro”, le riminiscenze della violenza subita, un qualcosa di oscuro che è un po’ come il basso continuo della sua arte.

  Londra, a collaborare con il padre alla Queen’s House e poi ad assisterlo fino alla sua morte. Orazio Gentileschi, un pittore di talento dove il luminismo d’impronta caravaggesca si armonizza con un’eleganza figurativa che a tratti l’accosta a Guido Reni (“David con la testa di Golia”, “Sibilla”, “Loth e le figlie”). Ma ormai la parabola di Artemisia sta per concludersi nella sua città natale, a Roma, dove lavora da sola (una intrigante “Cleopatra”) o collabora con Onofrio Palumbo, allievo del Caracciolo (“Trionfo di Galatea”, una nuova versione di “Susanna e i vecchioni”). Quando chiude il suo percorso terreno lascia però una traccia ben definita, che è quella di aver dato corpo e spessore alla figura della pittrice, fino ad allora relegata nell’ombra da quella maschile, del pittore, preponderante (prima di lei si possono citare solo Marietta Robusti, figlia del Tintoretto, e Sofonisba Anguissola, entrambe fini ritrattiste). Le ha dato corpo con rabbia e con amore in “un capovolgimento brusco dei ruoli”, come scrive il semiologo Roland Barthes, perché in tutta la sua opera “una nuova ideologia vi si sovrappone che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile”.

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 “Artemisia Gentileschi e il suo tempo” a Palazzo Braschi fino al 7 maggio 2017. Da martedì a domenica h.10-19, biglietto euro 11, ridotto 9, integrato (Mostra + Museo) euro 16, ridotto 12. Per informazioni 060608 e www.museodiroma.it

 La Mostra, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, è promossa e prodotta da Roma Capitale, assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata da Zétema Progetto Cultura.

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