La prima impressione, osservando i suoi quadri, è quella di trovarsi innanzi ad un pittore naif poi, approfondendo, ti rendi conto che c’è altro. I toni, il colore, il tratto compositivo e, fondamentale, quella vena inquieta che senti pervadere ogni sua tela o disegno. Un’ingenuità di fondo sussiste nella pittura di Antonio Ligabue, certo, ma è voluta, una sorta di ricerca dell’innocenza primaria che nella talora quasi brutale allegoria delle immagini esprime un forte disagio esistenziale. E questo è documentato nelle tre sezioni in cui è divisa la mostra, dal quasi fanciullesco stupore iniziale al segno più marcato, che coincide con i vari ricoveri nell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia, quasi scanditi da un crescendo di violenza cromatica delle opere.
Nato in Svizzera, a Zurigo, Antonio ebbe un’infanzia difficile, segnata da eventi drammatici, e sin da giovanissimo manifestò un profondo malessere, con frequenti crisi di nervi. Già bravo nel disegno in Italia cominciò ad avvicinarsi alla pittura grazie a Marino Mazzacurati, illustre esponente della Scuola Romana, che lo educò all’uso del colore, in seguito suscitando l’interesse di personalità come Luigi Bartolini, scrittore ed incisore, il quale, ad inizio degli anni ’40, lo farà conoscere a critica e pubblico. E la consacrazione avverrà nel 1961, con una personale alla galleria “La Barcaccia” di Roma, Ligabue quale artista assolutamente fuori degli schemi, “un caso clamoroso e unico di pittura”, come ebbe a scrivere Giancarlo Vigorelli nel catalogo di presentazione della mostra.
Prima di essere elevato agli altari Antonio ebbe però a percorrere una strada dove stima ed autostima avevano un sapore amaro, perché inversamente proporzionali alla sua bravura. Un pittore in ombra, poco noto, anche per il carattere scontroso, eppure nelle opere giovanili s’avverte sbocciare il seme della genialità. “Circo”, “Corrida”, “Tacchini con paesaggio”, “Pascolo”, “Il carrettiere”, solo per citarne alcune, rivelano una colorita matrice di cultura popolare, che spazia da suggestioni circensi (il circo lo affascinava) al candore compositivo degli ex voto. Ancora non è netto il segno espressionista della sua pittura più matura ma anche più sofferta, perché coincide con i ricoveri ospedalieri. E qui, nella sofferenza, si forgia il suo bestiario allegorico.
“Tigre con serpente, gazzella e scheletro”, “Tigre reale” (su carta intestata dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia, quindi il disagio in diretta), “Leopardo che assale un cigno”, “Leopardo con volatile”, “Leopardo con cielo al tramonto”, “Leopardo con serpente” e i colori si fanno più vivi, a sottolineare ed evidenziare una frantumazione dell’io. Che però ha un doppio aspetto, di vittima e di quasi protagonista, simboleggiato dalla figura ricorrente del leopardo, predatore ma anche animale di grande eleganza. Da un lato la lotta in cui lui soccombe e dall’altro quella bellezza felina che sembra esorcizzare l’atto di violenza ricollocandolo nel suo contesto, cioè la logica di natura. Una bellezza che lui invoca perché sa intrinseca alla sua pittura e, quindi, essa può ristabilire l’armonia violata.
La violenza comunque è il substrato dell’intera sua produzione, espressa nel tempo con un cromatismo sempre più acceso, fino a farsi quasi vivido nelle opere dell’ultimo periodo (la terza sezione della mostra). “Lotta di galli”, “Il Serpentario” (1962, anno in cui lo blocca una paresi che gli impedisce ogni attività) e, soprattutto, “Vedova nera con volatile”, sorta di incubo ad occhi aperti. Ma alla violenza intesa come disconoscimento del proprio valore Ligabue, che ne è invece consapevole, oppone la barriera della propria immagine, la serie degli autoritratti come affermazione di sé che, per reazione all’indifferenza diffusa, sconfina in quella che, citando Freud, si potrebbe definire l’esaltazione del Super-io (emblematico l’autoritratto dove, nello sfondo, figura un quadro con il volto del pittore).
E c’è un altro aspetto importante, il lato diciamo così idilliaco della pittura di Ligabue. La quiete che promana da opere come “Il pifferaio”, “Aia con chiesetta”, “Aratura”, “Paesaggio con animali”, “Mucche al pascolo”, che si tinge addirittura di sfumature di fiaba in “Diligenza con castello”, “Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero”, “Il postiglione”, “Diligenza con paesaggio e Villa Casanova Rampelli” (nel suo concitato dinamismo ha un che quasi di “cartoon”). Ma anche nell’idillio non manca la nota d’inquietudine, vedi “Cavalli imbizzarriti” e “Cavalli imbizzarriti con temporale”, o addirittura melodrammatica, come “Traversata della Siberia”.
Personalità complessa dunque, che nell’inesauribile fantasmagoria cromatica esprime una passionalità tutta volta all’interno e se nell’uso del colore spesso richiama Van Gogh (in particolare “Aratura con buoi”), nell’ambientazione generale, in quella pur composita ingenuità di fondo, non può non far pensare al primitivismo incantato di Rousseau, il Doganiere (le figure e la vegetazione, questa per un che di lussureggiante e decorativo). Di certo questo pittore autodidatta, le cui oltre cento opere esposte permettono una comprensione a tutto campo, è una testimonianza dell’arte come sfida e riscatto personale. “Sono io l’artista, e sono persino capace di rappresentare me stesso, pur segnato, come potete vedere, dalle ferite della vita; anche così voglio riaffermare la mia dignità di persona umana”.
“Antonio Ligabue”, Ala Brasini del Complesso del Vittoriano, fino all’29 gennaio 2017. Dal lunedì al giovedì h.9,30-19,30, venerdì e sabato h.9,30-20,30. Biglietto euro 10 intero, 8 ridotto. Per informazioni 068715111 e www.ilvittoriano.com
La mostra è promossa da Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri Comune di Gualtieri e Arthemisia Group.
Scritto da: Antonio Mazzain data: 13 gennaio 2017.il22 febbraio 2017.
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