“Dalla torre di giada salgono in cielo/ i suoni dei flauti, i canti”. E’ un verso di una poesia del periodo Tang, “Canto di palazzo”, di Ku K’uang, che ben si addice alla fascinosa mostra in corso a Palazzo Venezia, “Capolavori dell’antica porcellana cinese dal Museo di Shanghai”. Settantaquattro pezzi di magnifica fattura che, oltre al loro valore intrinseco, come artigianato di qualità, nonché documento di costumi e abitudini delle classi medio alte e della corte imperiale, hanno soprattutto una valenza culturale. Sono ulteriori, preziosi frammenti del Celeste Impero che si aggiungono agli altri già presentati a Palazzo Venezia in base agli accordi di reciprocità culturale fra Cina e Italia (“La Cina arcaica”, “Le leggendarie tombe di Mawangdui”, “I tesori della Cina Imperiale”).
La produzione della ceramica iniziò nel nord del paese nel VI secolo e si diffuse poi per tutta la Cina, in una sorta di gara fra le botteghe artigiane dei territori delle dinastie settentrionali e quelle omologhe delle dinastie meridionali. Qualche secolo dopo, in epoca Song, v’erano fornaci attive ovunque e, nel tempo, la lavorazione della ceramica si perfezionò. Dal semplice impasto all’invetriatura, la policromia (”wucai” o cinque colori), gli smalti, le porcellane che in epoca Ming raggiunsero il loro vertice, celebri non solo in Cina ma anche in Occidente. Se la Via della Seta era, sin da tempi remoti, un canale di transito commerciale e culturale fra Oriente e Occidente e fra Cina e bacino mediterraneo, soprattutto con e dopo Marco Polo, v’erano anche le missioni gesuite che facevano da tramite (pensiamo a Matteo Ricci o Martino Martini).
Un percorso dunque molto articolato che, nel tempo, si è arricchito di elementi nuovi, anche d’influsso occidentale, ma sempre mantenendo una sua identità che è al contempo di uso pratico e rituale. Per la Cina del passato, dove ogni cosa era parte di un universo simbolico, anche i semplici oggetti di uso quotidiano avevano un significato preciso. E questo traspariva dalle decorazioni, animali, fiori, inserti calligrafici, come vediamo subito nella prima sezione, “L’epoca d’oro della ceramica cinese”, 960-1368. I piatti con impresso il motivo del drago, riferimento alla casa imperiale, il loto, simbolo di vita (vedi la scodella a foggia di fiore in sboccio), oppure la forma che esprime la ritualità (i “cong”, dalla linea stilizzata).
Sin dagli inizi si nota una sobria eleganza nei manufatti, dal set per scaldare le bevande alcoliche al vaso con motivi floreali, la tazza a ramo di pruno, l’incensiere. Molto particolari poi i poggiatesta, soprattutto quello a forma di bambino, assolutamente delizioso. E, nello scorrere degli anni, l’eleganza diventa raffinatezza, come dimostra la seconda sezione, “Nascita e sviluppo della ceramica imperiale”, 1368-1644. Ciotole, vasi, coppe, piatti, con pezzi pregevoli, tipo i calici in bianco e blu e policromi, un incredibile incensiere a forma di anatra, il servizio di porta pennelli ad uso calligrafico, due splendidi vasi con scene narrative. E, naturalmente, il simbolismo che rimanda alla cosmogonia buddhista, come il vaso ed il piatto con il motivo degli Otto Tesori (qui in funzione di buon auspicio) o la statuetta dove il personaggio seduto sul leone (allegoria della forza) è Jin Bao, dio della ricchezza, figura della mitologia cinese.
E dalle raffinatezze di epoca Ming, impero che durò tre secoli, al massimo dello splendore, cioè la terza sezione, “L’apice della ceramica cinese”, 1644-1911. Le maestranze delle fornaci sparse per la Cina hanno ormai raggiunto un grado di perfezione notevole e così, fra le preziosità esposte, ammiriamo un porta pennelli policromo con scene di immortali, vasi con paesaggi di sapore zen, magnifici piatti smaltati del tipo “wucai”, una brocca che riprende il motivo degli Otto Tesori, un agile vassoio a forma di begonia con scritta una poesia dell’imperatore e, piccolo capolavoro, una statuetta che raffigura Bodhidharma seduto (maestro della tradizione Mahayana).
Né manca, ovviamente, l’aspetto rituale, come lo scettro ruyi, simbolo di fortuna, benessere e felicità, o i cinque vasi sacrificali di accesa policromia. Taluni lavori denotano influssi occidentali (d’altronde basta vedere le date, durante il lungo periodo della dinastia Qing oltre ai gesuiti vi furono varie missioni europee) ed altri invece colpiscono per la loro modernità. Fluttuano aromi liberty, decò e linee razionaliste (alcuni oggetti sembrano realizzati da Giò Ponti), ma la bellezza dell’insieme è completata dalle stampe che costellano il percorso espositivo, anch’esse di finissima fattura. E il risultato finale è quanto mai godibile, non solo esteticamente ma come fatto culturale in sé, la conoscenza di un mondo e la sua storia millenaria.
Inserire un commento