Alessandro Stradella, musicista da riscoprire
Roma, intorno all’anno 1670. Alessandro e la sua amante veneziana sono inseguiti dai sicari ingaggiati per punire l’offesa recata ad un alto personaggio della Serenissima. Questi hanno stabilito di colpire durante l’esecuzione del suo “San Giovanni Battista” nella Basilica del Laterano ma, quando l’ascoltano, ne sono così commossi che risparmiano la vita ad entrambi.
Ormai è dimostrato come questa sia leggenda, una sorta di aneddoto drammatico sulla vita di Alessandro Stradella, “singolare figura randagia e avventurosa” (Massimo Mila), nonché musicista di forte tempra che, per il suo linguaggio musicale insieme fluido e fiorito, si può considerare come un precursore del Barocco. E un ottimo esempio è appunto il suo “San Giovanni Battista”, oratorio ingiustamente dimenticato ed ora riproposto al Teatro Argentina dal Concerto Romano diretto da Alessandro Quarta.
Il testo è a firma di Ansaldo Ansaldi, membro dell’Arcadia, e riprende il passo del Vangelo di Marco (6: 17-21) dove si parla di Giovanni Battista che rimprovera ad Erode il comportamento immorale. Infatti egli ha sposato Erodiade, moglie di suo fratello che odia Giovanni ed incita Salomè, la figlia, a chiederne la testa. Erode, eccitato dalla danza della giovane, ha promesso di soddisfare ogni suo desiderio e così si compie il sacrificio. Ma, dopo, Erode è lacerato dal rimorso.
La Figlia, la Madre, San Giovanni Battista, il Consigliere, Erode e, sullo sfondo, il coro dei Discepoli, questi gli interpreti. La musica iniziale non fa presagire il dramma, anzi, introduce in modo brioso il recitativo e l’aria di San Giovanni, questa addolcita dal concorso degli archi. Poi, in crescendo, muta il clima, le lodi al tiranno si alternano ai rimproveri e prende gradualmente corpo il particolare stile stradelliano.
Che cura sì molto le musiche (Stradella è stato uno dei primi a cimentarsi nel concerto grosso), ma soprattutto la parte cantata, sia recitativi che arie, queste con frequenti inflessioni melismatiche. Ed è un’efflorescenza sobria ed elegante, vedi l’aria “Volin pure lontan dal sen”, intonata dalla Figlia, o “Anco in Cielo il biondo auriga”, intonata dal Consigliere, quindi non un virtuosismo fine a se stesso come avviene (ed avverrà) per molti musicisti bensì un tipo di scrittura brillante, dai colori vivaci.
A ciò non è estraneo il libretto dell’Ansaldi, i cui contenuti evitano qualsiasi tentazione agiografica, un po’ tipica del genere oratorio, puntando più alla caratterizzazione dei personaggi. E qui avviene la saldatura fra musica e testo, dove l’una funge da supporto drammatico all’altro, in perfetta simbiosi, perché Stradella usa il modulo giusto al momento giusto. Ed ecco risaltare la malizia della Figlia, gli ammonimenti di Giovanni, l’ira di Erode (“Tuonerà tra mille turbini”, aria di grande forza espressiva), la voglia di sacrificio (l’intreccio a quattro voci, Figlia, Madre, Erode e Consigliere).
E ci si avvia alla tragica conclusione che pure sembra lontana, poiché “Vaghe ninfe del Giordano”, la dolcissima aria cantata dalla Figlia, nulla lascia presagire. Ma, sotterranea, opera la perfidia della Madre che spinge la Figlia a chiedere la testa di Giovanni: Erode, dapprima riluttante, acconsente, non volendo mancare di parola. E il Battista va incontro alla morte senza timore, la sua anima già proiettata altrove (“E lo spirto dal carcere terreno”).
Questa seconda parte dell’oratorio è decisamente conflittuale, tutta imperniata sul duo Madre-Figlia deciso al sacrificio e, di contro, le sempre più deboli rimostranze di Erode. Qui si oppongono i recitativi (“Bramo che mora”, la Figlia, e “Ahi, troppo brami! E a qual cagione il chiedi? Sento dure contese di pietà nel mio core”, Erode) e s intrecciano splendidamente le arie, in opposto (sempre la Figlia ed Erode). Poi, dopo che si è compiuto il dramma, suggellato da “Sù coronatemi per la vittoria che mi beò”, aria della Figlia che il finissimo accompagnamento a tre (fagotto, tiorba e violoncello) rende quasi stilizzato, il finale impregnato dal Dubbio: semplice cruccio per la Figlia, inizio di rimorso per Erode.
Ottima l’idea di spegnere le luci in sala su quel “Perché?” intonato con significato diverso dai due, come a voler dire che forse non c’è spiegazione, in quanto densa di contraddizioni è la natura umana. Stradella, ottimo complice l’Ansaldi, ne fornisce qui uno splendido saggio, reso ancora più prezioso dal suo linguaggio ricco di inventiva. Nulla nel “San Giovanni” è scontato, dai recitativi che lo sono solo in parte perché sconfinano dolcemente nelle arie ad un gustoso sapore madrigalistico d’insieme.
In quanto all’interpretazione del Concerto Romano ed al suo direttore, Alessandro Quarta, si può definire impeccabile, avendo colto in pieno lo spirito dell’oratorio, che si potrebbe definire una sorta di psicodramma sacro. Merito anche dei cantanti e cioè Sonia Tedla Chebreab, soprano (la Figlia), Carla Nahadi Babelegoto, mezzosoprano (la Madre), Andrés Montilla-Acurero, tenore contraltino (San Giovanni Battista), Luca Cervoni, tenore (il Consigliere), Mauro Borgioni, baritono (Erode). D’altronde da un Ensemble come il Concerto Romano, ormai specializzatosi nella ricerca e riedizione di musiche sacre seicentesche (ricordo “Music for the poor” e “La sete di Christo”), c’era solo da aspettarsi il meglio. Come puntualmente è avvenuto.
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