Brahms, gli aztechi e Verdi
“Un Requiem semplicemente umano”, così Clara Schumann ebbe a dire – e scrivere – a proposito del maestoso “Deutsches Requiem” dell’amico Johannes Brahms e in effetti è vero, qui ci troviamo innanzi ad un’opera che contempla la morte senza chiedere soccorso alla fede e porsi il problema dell’ “oltre”, ma con un afflato umano eccezionale. Si percepisce il senso del sacro sin dalle prime battute, un incedere meditativo che poi sfocia in un’accecante cromìa di voci e musica, con a tratti quasi accenni di fugato. Citazioni dal Vecchio e Nuovo Testamento fino alle Lettere ai Corinzi costituiscono la base di questa lunga e struggente riflessione sulla fragilità dell’essere. Ma è un contemplare sereno, che attinge lontano, a reminiscenze bibliche della giovinezza, creando uno spazio come di affettuosa malinconia, che le voci soliste percorrono dolcemente così come dolcemente segue ed incalza il coro.
E il risultato è notevole, un’esecuzione impeccabile, fra le migliori che io abbia mai ascoltato del “Deutsches Requiem”. Solenne ed al contempo semplice, di una levità che affascina e commuove, proprio perché lo senti così terribilmente umano, il suo linguaggio esprimendo quello che ognuno di noi prova innanzi al mistero della vita. In realtà questo è il Requiem Tedesco, una preghiera laica la cui vivida solennità non può lasciare indifferenti. Merito del Palatina Klassik-Vokalensemble, del Philharmonischer Chor An Der Saar e del Coro e Orchestra del Conservatorio Statale di Kazan diretti da Leo Kraemer, Susanne Bernhard, soprano, e Vinzenz Haab, baritono, se l’esecuzione di questo capolavoro brahmsiano ha entusiasmato il pubblico che affollava la Basilica di San Giovanni.
Grande era la curiosità per il concerto a Sant’Ignazio, la “Misa Azteca”, che il compositore americano Joseph Julian Gonzales ha scritto usando testi della liturgia latina, brani in spagnolo e in nahuatl, l’antica lingua azteca. Alla base anche il “Cantares Mexicanos”, manoscritto del XVI secolo, con effetti suggestivi, come dimostrano gli apprezzamenti che la “Misa” ha raccolto un po’ ovunque nel mondo. Se il “Kyrie” d’inizio ha un che di tribale per quell’alternanza di linguaggi accompagnata da una ritmica dove risaltano i timpani, dopo subentra un clima più disteso in cui però s’avverte un senso corale. E’ nel “Credo” e nell’ “Agnus Dei”, con l’uso di strumenti della tradizione precolombiana, che traspare un clima di comunità, poi stravolto dai Conquistadores spagnoli.
Molto accurata l’interpretazione del The Continuo Arts Festival Chorus e la Roma Sinfonietta Orchestra con la direzione di Teresa Russel, Charisma Miller, soprano, Linda Scott, mezzosoprano, Victor Chan, baritono. Entrambi i complessi sono poi stati diretti dall’americano Mark Hayes per il suo “Requiem”, baritono Mark Spencer. Inevitabile pensare a Gabriel Faurè come referente prossimo, per quella sensibilità melodica che si concentra in passaggi di grande dolcezza, come il “Kyrie” intonato dal coro. Restiamo comunque in un’àmbito classico, senza le dissonanze di molta (troppa) musica contemporanea e lo stesso può dirsi per l’ “Inno alle fede”, di Andrea Morricone, presentato – ed eseguito dallo stesso Morricone – in prima assoluta durante il Festival.
Ha uno stile che rimanda al madrigale, come ha spiegato in conferenza stampa l’autore ed è stato scelto come inno ufficiale della Fondazione, per quel suo intrinseco messaggio di umana solidarietà.
La “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, splendidamente in bilico fra oratorio sacro e opera drammatica. Scritta per la morte di un grande, Alessandro Manzoni, la Messa fu giudicata da Brahms come “una composizione che solo un genio può aver scritto”. E con il “Requiem” del musicista tedesco quello verdiano ha in comune la meditazione sul “finis vitae” che non s’appella tanto alla fede quanto alla capacità dell’uomo di fronteggiare il mistero: alla sua profondità di campo, per così dire. E questo comporta un forte senso del sacro, che traspare subito nell’attacco iniziale, in parte cantato a cappella, per poi ardere nel Dies Irae e nel Tuba Mirum, brani che ogni volta mettono i brividi perché davvero senti le Trombe dell’Apocalisse e hai la visione dei morti che risorgono, come nel grande affresco di Luca Signorelli. E tutto scorre sulle linee di un dolore rattenuto, dove l’impeto (“Rex tremendae”) si alterna alla rassegnazione (“Sanctus”), fino a placarsi nell’estremo silenzio (“Libera me”).
Tomomi Nishimoto, già ospite lo scorso anno con una magnifica “Nona” di Beethoven, ha diretto l’Illuminart Philarmonic Choir and Orchestra, Sayuri Bunya, soprano, Takako Nogami, mezzosoprano, Gianluca Sciarpelletti, tenore, Tsutomo Tanaka, baritono. Senza dubbio un’ottima esecuzione e tuttavia non coinvolgente come mi aspettavo, salvo nel Dies Irae e nel Tuba Mirum (i brividi, appunto), ma ciò nulla toglie alla bontà dell’insieme. E, infine, la felice chiusura affidata alle ragazze del coro del Duomo di Colonia dirette da Oliver Sperling, con una sorta carrellata nella cultura mottettistica, dalla rinascenza ad oggi. Da Tallis a Mendelssohn e da Verdi a Arvo Part, un inno che però non è solo di fede ma di speranza in un futuro che sia finalmente a misura d’uomo. Il miglior modo per concludere il XIII Festival di Musica e Arte Sacra.
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