Decisamente la storia dell’arte figurativa inglese è atipica rispetto a quella europea. Nel medioevo ebbe un certo sviluppo, mutuando modelli del continente in forme autoctone, dove, come del resto ovunque, la caratterizzazione religiosa era predominante. La committenza veniva dal clero e dunque si venne formando tutto un variegato corpus di arte sacra che la furia iconoclasta della Riforma luterana disperse per sempre. In particolare la pittura, che non ebbe quella continuità che altrove avrebbe maturato un linguaggio nuovo, come la Rinascenza in Italia, perché ormai erano mutati i parametri artistici, forgiati dall’etica protestante.
Una diversa cultura stava germogliando oltremanica, superando l’antica – anche se mai interamente subita – sudditanza con l’Europa (Francia e Italia in testa), affermandosi come propria e, anzi, proponendosi quale modello (come già era avvenuto per la musica, che aveva influenzato tutto il filone franco-fiammingo). Ed è proprio la pittura ad imporsi, rispecchiando una società in tumultuosa crescita, alla vigilia di una rivoluzione industriale che qui, in Inghilterra, ha la sua culla. E tutto è supportato da un sistema economico ben definito (le teorie di Adam Smith, poi riprese ed ampliate da David Ricardo) che regge la complessa struttura del più grande impero coloniale del mondo. Ed è in questa ottica di progressivo sviluppo che bisogna “leggere” le oltre cento opere esposte a Palazzo Sciarra: “Hogarth, Reynolds, Turner – Pittura inglese verso la modernità”.
Dopo il devastante terremoto del 1666 Londra venne ricostruita in modo razionale, con un preciso piano regolatore, divenendo in poco tempo una metropoli di un milione di abitanti. E la sua fisionomia urbana in divenire è celebrata nei quadri di Samuel Scott o del nostro Canaletto, vedutista famosissimo a Londra (re Giorgio III acquistò diecine di sue opere), con il ponte di Westminster quale protagonista. Un’impresa eccezionale per quei tempi che dava il senso di una città operosa quale in effetti era, come appare in una tela di William Marlow, con le ciminiere sullo sfondo. Una città dove la gente partecipa a questo clima di nuova consapevolezza, dovuto all’orgoglio di essere una grande potenza che solca i mari (vedi il ritratto di James Cook ed il paesaggio tahitiano di William Hodges), ma si diverte anche (i pattinatori di Rowlandson e la mongolfiera di Ibbetson).
Si sta formando una solida borghesia nazionale che, come già quella europea del nord, sente il bisogno di autocelebrarsi ed inizia la grande stagione della committenza. Ritratti di singoli o di gruppo, i “conversation pieces”, quindi soggetti che comunque hanno un rilievo sociale, dal gentiluomo (i dipinti di Johann Zoffany) al popolano (il boxer di John Mortimer), con personaggi anche artisticamente di primo piano (come Johann Christian Bach raffigurato da Thomas Gainsborough). E poi il paesaggio, tema caro agli inglesi, che però segue una doppia ispirazione, dei pittori che, avendo fatto il Grand Tour, si sono abbeverati alla particolare luce italica e di quelli invece più classici, fedeli alla campagna inglese verde e brumosa. Fra i primi Richard Wilson, Francis Towne, Wright of Derby, che dimostra di aver bene appreso la lezione luministica di Claude Lorrain (due capolavori: “Grotta nel Golfo di Salerno” e “Snowdon al chiaro di luna”), fino ai sublimi fulgori di William Turner (e come non ricordare la splendida mostra ferrarese di qualche anno fa?). Dall’altro soprattutto John Constable, che con il suo tocco acceso sembra anticipare l’impressionismo (vedi “La cattedrale di Salisbury”, ma anche Turner non scherza: “Paesaggio a Nepi”).
Nella ritrattistica s’impongono William Hogarth e Joshua Reynolds, tendente alla satira sociale il primo (i “moral subjects”, emblematica la serie del “Matrimonio alla moda”), più accademico il secondo (memore però dell’esperienza italiana, soprattutto la conoscenza della pittura veneta: ne è un esempio “Lady Bampfylde”). E, ovviamente, come giusto desiderio di una pittura nazionale (che peraltro si sta proprio formando in questi anni), un qualcosa di assolutamente inglese. Shakespeare, che qui risalta a tutto tondo grazie alla visionarietà di Fussli (magnifica “Titania e Bottom” dal “Sogno di una notte di mezza estate”), senza dimenticare la bravura di chi lo mette in scena (come il famoso attore David Garrick ripreso da Reynolds). Da notare, infine, che non un solo soggetto religioso compare nella pittura con la (rara) eccezione di un certo frà Giovanni Poggi, di Zoffany.
E’ una cultura protestante come abbiamo visto, quindi la pittura è affatto iconica, anzi risente del pragmatismo che permea l’intera società britannica e che, al dunque, si traduce in una sorta di meritocrazia della quale beneficia (almeno in teoria) l’intero corpo sociale. E questo, a sua volta, significa una comunità in movimento, soprattutto culturale, come testimoniano le opere esposte a Palazzo Sciarra. Che, insieme a Palazzo Cipolla, costituisce un piccolo prezioso polo museale con all’attivo 44 mostre in 15 anni (oltre ad una notevole collezione permanente, dal ‘400 ai giorni nostri). Una nuova e stimolante offerta culturale della Fondazione Roma che, con la sua attività volta alla conoscenza, cerca di contrastare quella “capacità negativa”, come dice il Presidente Emanuele Francesco Maria Emanuele, che ci impedisce di valutare nel giusto modo arte e paesaggio. Le nostre sole, vere ricchezze, ma quando finalmente lo capiremo?
a Palazzo Sciarra (via Marco Minghetti 22), fino al 20 luglio.
Da martedì a giovedì h.10-20, venerdì e sabato h.10-21, lunedì h.14-20. Biglietto euro 11,50 intero, ridotto 9,50.
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