Un fiammingo a Roma
Un fiammingo a Roma
di Antonio Mazza
“Roma è la città che, prima di ogni altra, il vero pittore dovrebbe conoscere”. Così scriveva Karel van Mander nel suo “Il libro della pittura”, pubblicato in Olanda nel 1604. Un invito agli artisti dell’area dei Paesi Bassi a recarsi nell’Urbe, città dove la Bellezza era di casa, per temprarsi e crescere professionalmente. E in effetti nella Roma del 1500 si registra una folta presenza di pittori fiamminghi, dal citato van Scorel a Maerten van Heemskerck, suo allievo e rivale, a Bartholomaeus Spranger, a Paul Bril. Presenza che si riscontra anche nel 1600, ad esempio Matthias Stomer o Gerrit von Honthorst, noto anche come “Gherardo delle notti”, ed altri dei quali s’è persa memoria. Magari di un certo rilievo, come Michael Sweerts, proposto dall’Accademia Nazionale di San Luca, “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento”, a cura di Andrea G.De Marchi e Claudio Seccaroni.
Riscoperto ai primi del ‘900 e poi rivalutato da Giuliano Briganti e Roberto Longhi, Michael Sweerts, nato a Bruxelles nel 1624, approdò a Roma nel 1643 e vi rimase 10 anni. Il suo studio era in via Margutta e qui erano anche i suoi colleghi del nord, la chiassosa colonia fiamminga di bohémiens che si esprimeva nei toni picareschi dei Bamboccianti. Ma Michael, pur influenzato nei temi e nello stile, rimase pur sempre ai margini, mostrando una sua precisa personalità pittorica. Diciamo che sin dall’inizio mostrò di essere fuori dagli schemi, anche se si guardò intorno con occhio avido di ogni particolare (e non poteva essere altrimenti nella Roma-cantiere del ‘600, uno scrigno d’arte in continua evoluzione).
Quello che gioca a suo favore è l’essere d’origine aristocratica, un benestante che può permettersi una carriera artistica svincolata da correnti e, soprattutto, dalla tentazione di assecondare il mercato. Si dedica ai Bamboccianti e poi allo studio del Caravaggio appreso dalla collezione Pamphilj e, ovviamente, anche all’antichità classica, ma sempre con un distacco che traspare da ogni sua opera. A questa si unisce una sensibilità particolare che, pur indirizzandolo verso soggetti un po’ tipici della cosiddetta “pittura di genere”, evita qualsiasi cliché figurativo. Cioè quello schema ormai collaudato che richiede la committenza, il luogo comune rifiutato da Sweerts grazie alla sua indipendenza economica (al contrario di buona parte dei suoi compatrioti obbligati alla catena di montaggio per mettere insieme pranzo e cena).
Michael si immerge totalmente nel clima della Roma magnifica e cenciosa del 1600 e ne trae opere di notevole interesse, dove la sua vena realistica si esprime con toni morbidi, in contrasto con le scene rappresentate. Che sono di vita vissuta del popolino, magari gente ai margini, come ad esempio “Bevitore” (1650) o tipiche della Roma di quel tempo, come “Scena di adescamento” (1644-46), la prostituzione ad ogni vicolo del centro storico. E’ un partecipare in maniera discreta, ben diversa dai toni violenti di Caravaggio o da quelli un po’ ruffiani dei Bamboccianti, un osservare quasi con affetto, per così dire. Figure di strada, “Povero di mezza età” (1644-46), o scene di vita domestica, “Filatrice anziana” (1644-46), “Ragazza che si pettina” (1650), “Filatrice e bambino che si scaldano a un braciere” (1650), hanno tutte un taglio un po’ sfumato, che è poi la peculiarità del linguaggio pittorico di Sweerts.
Ma non solo la gente comune, anche quella più in alto sulla scala sociale, borghesia e nobiltà ritratte con il loro contorno di agiatezza, vedi “Famiglia Lodoli in un giardino autunnale” (1653). E’ una rappresentazione di ampio respiro, con i personaggi e lo sfondo di statue e di verzura che testimonia della capacità di Sweerts di non ancorarsi ad un genere ben definito ma di avere una sua autonomia narrativa che si riflette anche a livello sociologico. Interessante lo scarto fra “Scena di adescamento”, con i panni stesi nel vicolo che quasi ne senti l’odore e il clima decisamente signorile che promana dalla “Famiglia Lodoli”. E lui, Sweerts, è in entrambi, con preferenza per la prima rappresentazione dove, simbolicamente, si raffigura dietro la figura della mezzana (e simbolico è anche “Coppia elegante in visita ai pastori”, 1648-50, i due mondi che s’incontrano).
Una disponibilità anche sul piano pratico, la scuola d’arte per aspiranti pittori, giovani che lui seguiva con particolare attenzione nel suo atelier dove collezionava calchi in gesso di sculture antiche (l’amore per la Roma classica). Vi allude la scena composita che accoglie il visitatore, la raffigurazione di uno studio d’artista con il suo caos creativo, “L’amor divino che abbatte l’amor profano” (1686), rilievo in stucco di Giovanni Arnaldi e “Studio di anatomia” (XIX secolo), gesso che ricorda come Sweerts si applicasse all’osservazione del corpo umano. Che sapeva ben riprodurre, come dimostrano due capolavori, “San Bartolomeo” (1650-53) e “Testa di giovane cantore” (1653-55). Una chiarità di toni in contrasto con le atmosfere generalmente un po’ scure, con un che di misterioso, come la parabola artistica di Sweerts nella Roma del ‘600, insignito da papa Innocenzo X Pamphilj del titolo di “Cavaliere dello Speron d’oro”, “per essere eccellente nella Scienza di Pittura”.
“Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento” all’Accademia di San Luca fino al 18 gennaio 2025. Da martedì a venerdì h.15-19, sabato h.10-19. Ingresso gratuito. Per informazioni 066798848 e www.accademiasanluca.it
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