A proposito di “bon ton”
di Massimo Valentini
In un mondo in cui la maleducazione è la punta dell’iceberg di comportamenti immondi scegliere la difficile strada del civismo e del beau geste può compensare la latitanza della giustizia e della civiltà. I rapporti sociali sono peggiorati, valgono a dimostrarlo due modi di agire che sono tutti i giorni sotto ai nostri occhi: l’ uso universale del tu, al quale i baristi aggiungono il vocativo “caro” e la prepotenza, grande o piccola che sia, sentita da alcuni come diritto personale da difendere a ogni costo.
Queste considerazioni mi hanno ricordato un libro piacevole e pungente.
Nel 1947 uscì un volumetto intitolato “Il vero signore” in cui l’autore Willy Farnese ( Giovanni Ansaldo) offriva con garbo e simpatia suggerimenti di saper vivere, in una forma di galateo borghese che si è andato affievolendo negli anni.
L’autore espone situazioni da affrontare ed elenca prescrizioni e consigli per superarle nel migliore dei modi, ma soprattutto prende in considerazione come si deve comportare in certe circostanze chi è signore nell’animo.
Non si tratta dunque di un manuale di bon ton, ma di indicazioni per fronteggiare nel migliore dei modi situazioni della vita quotidiana.
Tornando al libro c’è un capitolo in cui l’autore, con il beato candore del dopoguerra, afferma che: “l’attività politica non porta sempre ai fastigi di Montecitorio o di palazzo Madama. Può condurre anche in prigione”.
In realtà decenni di Repubblica Italiana a seguire hanno dimostrato che il politico, qualsiasi porcata possa aver fatto, in prigione non ci va.
Segue il capitolo sullo stare in prigione, in cui il vero signore “porrà tutta la sua attenzione nell’osservare talune norme di urbanità specifiche dell’albergo in cui soggiorna. Naturalmente se gli capiterà di andare in prigione sarà solo per reato d’opinione e mai per reato comune”.
Una finezza letteraria è il capitolo seguente.
“Una buona condanna a morte, senza possibilità di appello, è un infortunio che per quanto raro può toccare a un vero signore. E il contegno sul patibolo deve corrispondere alle regole che lo hanno governato durante la vita. Il vero signore sale sul patibolo con lo stesso passo come salirebbe le scale della sua casetta di campagna. Perché possa morire con un giusto decoro occorre che coloro che lo condannarono e che vogliono eseguire la sentenza capitale posseggano anch’essi un senso elementare delle convenienze sociali”.
Vale per riferimento il comportamento di re Carlo I Stuart prima dell’esecuzione il 30 gennaio 1649. Giunto davanti al boia chiese cosa dovesse fare per non intralciare il suo lavoro, poi essendo rimasto in panciotto, ritenne sconveniente di inginocchiarsi così e si ravvolse nel mantello. Più che un esecuzione sembra un torneo di belle maniere, mille miglia distante dalla sciatteria del giorno d’oggi.
Oggi tali modelli di comportamento appaiono ingessati e fuori del tempo, fantasmi di un mondo passato. Ma a rifletterci bene rimangono un punto di riferimento per chiunque voglia tenersi fuori dalla sciatteria imperante, dalla volgarità incancrenita e dal degrado ubiquitario: Virtus ipsa praemium est, la virtù si premia da sola, non ha bisogno di riconoscimenti e nei momenti difficili solo lo stile appaga.
Giovanni Ansaldo (1895-1969) si affacciò sulla scena letteraria nel 1913, sulla “Rivista ligure di scienze lettere e arti”, poi la sua penna si unì alla rivista “L’Unità” fondata da Gaetano Salvemini, per il quale Ansaldo professava una fervente ammirazione.
Nella Grande Guerra si distinse come ufficiale e tornata la pace si dedicò al giornalismo, entrò in contatto con Piero Gobetti e fece amicizia con Giuseppe Ungaretti.
Ansaldo detestava la violenza come arma politica e nel 1925 fu fra i firmatari del manifesto antifascista di Benedetto Croce. Venne mandato al confino nell’isola di Lipari nel 1927 e tornato libero gli fu vietata la firma come giornalista. Tuttavia continuò a scrivere con uno pseudonimo.
Grazie all’aiuto di Leo Longanesi fu condonato e poté tornare a scrivere con una certa libertà nel sottile spazio concesso dal regime. Poco prima della guerra Mussolini lo definì:
“uno dei pochi giornalisti italiani con i quali sia possibile discutere di cultura del fascismo. I giornalisti italiani dicono sempre “sì”! Giovanni Ansaldo, che deve fare sforzi eroici per sentirsi fascista, dice anche, e lo dice spesso, no!”. Dopo il 25 luglio 1943 Giovanni Ansaldo divenne tenente colonnello dell’Italia cobelligerante con gli Alleati. I tedeschi lo catturarono in Dalmazia e lo misero in prigionia come migliaia di ufficiali e soldati italiani fedeli al re. Non aderì alla Repubblica di Salò e fu liberato a guerra finita.
Tornato in Italia fu arrestato per i suoi trascorsi col regime e finì al confino a Procida. Liberato per l’amnistia del 1946 pensò di ritirarsi a vita privata ma continuò a fare il giornalista grazie ai suoi rapporti con Orio Vergani e Leo Longanesi, e dopo varie collaborazioni fu direttore del Mattino di Napoli fino al 1965, quando fu costretto a lasciare il giornale per motivi di salute, pur mantenendo collaborazioni con altre testate. Morì il primo settembre 1969. Aveva settantaquattro anni.
Contro di lui Sandro Pertini ebbe il dente avvelenato: “attraverso queste maglie del decreto di amnistia, noi abbiamo visto uscire non soltanto coloro che dell’amnistia erano meritevoli, cioè coloro che avevano commesso reati politici di lieve importanza, ma anche gerarchi propagandisti e giornalisti, che si chiamano Giovanni Ansaldo, Spampanato, Amicucci, Concetto Pettinato, Gray. Costoro, per noi, sono più responsabili di quei giovani che, cresciuti e nati nel clima politico pestifero creato da questi propagandisti, si sono arruolati nelle brigate nere ed in lotta aperta hanno affrontato i partigiani e ne hanno anche uccisi”.
Per capire chi fosse in realtà Giovanni Ansaldo vale la pena di ricordare un episodio.
Un giorno Mussolini chiese la sua opinione sulla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti.
Ansaldo rispose con una domanda: “Duce, avete mai veduto l’elenco del telefono della città di Nuova York?” L’ altro scrollò le spalle più incuriosito che seccato dall’inattesa richiesta.
“L’elenco del telefono di Roma conta poche pagine, quello di Nuova York è formato da alcuni volumi”.
Per disgrazia di questa povera Italia, l’allora capo del governo non colse l’oscura premonizione.
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