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Quel pittore di Gualtieri, un po’ “strano”

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                                  Quel pittore di Gualtieri, un po’ “strano”

di Antonio Mazza

  “El matt”, così chiamavano il tipo che si aggirava per le campagne intorno al paese parlando con gli animali e poi disegnandoli o dipingendoli in forme bizzare, sì, quello spilungone con la faccia non bella, anzi, e lo sguardo allucinato. Ma pure, nelle parole e nell’espressione di chi così descriveva il pittore pazzo, reduce da varie ricoveri negli ospedali psichiatrici, misto al dileggio s’avvertiva anche una punta d’orgoglio. Campanilistico, certo, perché quel Ligabue che errava per i campi, con la sua arte bislacca, ormai riconosciuta a livello internazionale, aveva lanciato il nome di Gualtieri, piccolo comune della bassa reggiana. E Ligabue e il suo mondo contadino, rappresentato in una mitica dimensione agropastorale, ritornano al Museo Storico della Fanteria, “Antonio Ligabue – I misteri di una mente”, mostra organizzata da Navigare Srl con il patrocinio di Regione Lazio e Città di Roma, da una iniziativa di Difesa Servizi SpA. Il progetto è a cura di Micol Di Veroli, Dominique Lora e Vittoria Mainoldi.

"Autoritratto" (1959), puntasecca.

“Autoritratto” (1959), puntasecca.

  Nato a Zurigo nel 1899, poco favorito da madre natura (rachitico e con il gozzo), Antonio ha un’infanzia difficile, che incide sulla sua struttura mentale, facendo di lui un ragazzo introverso ed emotivamente instabile. Affidato ad una coppia di svizzeri tedeschi, che diventano i suoi genitori adottivi, frequenta con difficoltà di apprendimento i corsi scolastici, riuscendo bene solo nel disegno. Cresce fra crisi nervose e ricoveri, conducendo una vita da solitario, finché viene espulso dalla Svizzera per contrasti con la famiglia adottiva ed approda a Gualtieri. Qui non cambia abitudini, continuando a vagabondare fra i boschi e campando di quel poco che guadagna a lavorare nei campi. Cambia il cognome da Laccabue in Ligabue, Laccabue chiamandosi l’uomo che aveva sposato la sua madre originaria e che Antonio riteneva responsabile della morte di lei e dei tre figli (in realtà un’intossicazione alimentare). Ora dipinge e, 1928, viene scoperto da Marino Mazzacurati.

"La caccia" (1955), olio su tela.

“La caccia” (1955), olio su tela.

  E’ una svolta nella sua vita, studia ed approfondisce l’uso dei colori ad olio, al contempo dedicandosi con maggior impegno alla scultura e al disegno. Fra un ricovero e l’altro, alternando stati maniaco depressivi a stati di euforia creativa, “El matt”, come ormai lo conoscono di fama in paese e nella bassa reggiana, produce con un certo ritmo. Negli anni ’40-‘50 comincia lentamente ad affermarsi ed è un crescendo fino alla consacrazione nel 1961, con una personale a “La Barcaccia” di Roma. Colpisce il suo stile, così lucidamente aggressivo, con quelle riproduzioni di animali che esprimono una drammaticità non realistica, bensì trasfigurata, con un che di primordiale. E’ il mondo allucinato-fiabesco di Antonio, dove il suo amore per la natura, il vagare fra i campi e il dialogare con gli animali si travasa nel suo scompenso psichico, creando immagini la cui componente brutale è esaltata da un apporto cromatico di lucida densità. Vivido è il termine giusto, non solo per rappresentazioni complesse come “La caccia” (1955), una dei suoi capolavori, ma anche per scene più tranquille, per così dire, come “Lotta dei galli” (1952), “Lepre” (1957-58), “Tacchini” (1958-59), “Cane Setter” (1960), “Stalla con cavalli e asino” (1960).

"Cane setter" (1958), olio su faesite.

“Cane setter” (1958), olio su faesite.

  “Naif” è l’aggettivo che solitamente si usa riguardo alla pittura di Ligabue ma se esaminiamo le opere in mostra solo alcune potrebbero definirsi tali (vedi ad esempio “Cortile” (1930), perché a predominare sono tonalità fortemente  espressioniste (spesso la violenza cromatica rimanda a Van Gogh). Di certo lui non seguiva alcuna corrente stilistica, semmai può esser rimasto colpito da ritagli di riviste d’arte, che hanno un po’ influito sulla sua pennellata già (inconsapevolmente) di sapore espressionista. Ma il lato più sorprendente ed anche poco noto della personalità artistica di Ligabue è la produzione di bronzetti, assolutamente notevole, sia per la padronanza tecnica che per la bellezza dell’insieme. Delle 73 opere in mostra 31 sono sculture che coprono un arco di tempo fra gli anni ’20 e i ’60 dello scorso secolo. Animali, ovviamente (notevoli i disegni), e forse qui appare più manifesta la tendenza di Ligabue verso la sua parte più istintiva e selvatica: animalesca, appunto.

"Tacchini" (1958-59), olio su faesite.

“Tacchini” (1958-59), olio su faesite.

  Si chiama “teriantropismo”, fusione fra le due nature, che ha origine mitiche e una valenza sacrale per molte culture dove lo sciamano ha la funzione di mediatore. Incontro simbolico fra uomo e animale, d’altronde, come affermava Mazzacurati, Ligabue “aveva un sincero bisogno di immedesimarsi negli animali prima di tracciare le linee che li ritraevano”. Raccoglieva la terra in riva al fiume e poi la masticava per darle consistenza e poterla così modellare, realizzando una gran copia di sculture in creta che dopo la sua morte, nel 1965, i Mazzacurati trasformarono in bronzetti. Belli e selvaggi, l’esotico, “Leone e leonessa” (1935), “Scimpanzé” (1936), “Leone ruggente” (1936), la dimensione contadina, “Gallo e gallina accoppiati” (1938), “Bue magro” (1940), “Cavallo” (1950), “Cavallo con basto” (1952), ma un’opera in particolare, con la sua esplosione ferina, riassume simbolicamente la complessa personalità di Ligabue, “Testa di tigre” (1950).

"Testa di tigre" (1950), bronzetto.

“Testa di tigre” (1950), bronzetto.

    “Dicono che sono sporco, pazzo, irresponsabile e analfabeta. Solo perché non seguo la massa degli obbedienti, non ascolto i proclami del potere, non mi drogo con la televisione, non mi faccio prendere per il culo dai politici e tanto meno dai giornalisti. Mi dicono che non valgo nulla, come se il valore fosse dettato dall’obbedienza, dal silenzio della violenza, dal mettersi in ginocchio davanti ai governanti, dal copiare gli altri artisti, dal seguire le loro leggi.  E allora io rispondo:  “Se questo è il vostro valore, allora io sono ben lieto di non valere nulla, di essere un semplice pazzo analfabeta senza valore”.

"Domatore" (autoritratto), 1940, bronzetto.

“Domatore” (autoritratto), 1940, bronzetto.

  Antonio Ligabue, un uomo libero, “el matt” che quando non sfrecciava per le stradine della bassa inforcando la sua moto Guzzi (in copia all’ingresso della mostra) o si rintanava nei boschi, era impegnato con la tela o ad impastar terra di fiume. E creava il suo universo, come suggerisce “Domatore” (1940), non a caso definito anche “autoritratto”, lui che gestisce il suo personale bestiario: un po’ folle, ma “vivo”.

"Leone ruggente" (1936), bronzetto.

“Leone ruggente” (1936), bronzetto.

“Antonio Ligabue – I misteri di una mente” al Museo Storico della Fanteria fino al 12 gennaio 2025. Da lunedì a venerdì h.9,30-19,30, sabato e domenica fino alle 20,30. Biglietto euro 15 week-end e festivi, 13 feriali, 10 ridotto (con audio guida). Promozione in caso di visita con l’attigua mostra di Mirò. Per informazioni 3336095192 e www.navigaresrl.com

"Autoritratto" (1957), olio su faesite.

“Autoritratto” (1957), olio su faesite.

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