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L’ultima chiacchierata con mio padre.

images Chi l’ha detto che a Natale, attorno al caminetto, o a tavola, tra una portata e l’altra, si raccontano solo favole per grandi e piccini? Mio padre, ci raccontava di tutto, ma proprio di tutto. Il suo cavallo di battaglia erano, però, le sue avventure in Africa Orientale e noi pendevamo dalle sue labbra in attesa del cenone e del torrone che lui si ostinava a fare nonostante le nostre proteste perché, era duro ed insapore. Chissà dove aveva imparato a farlo, ma pagherei chissà che cosa per risentire, oggi, anche per un attimo, quel gusto terribile che a Natale mi mancherà. Don Nino, così lo chiamano tutti, .ha superato il secolo di vita ma, pur avendo staccato la spina dopo la morte della moglie, mia madre, ci fa ancora compagnia e a noi sta bene anche così.. Vive serenamente nel suo paese, Palizzi, in Calabria, e quando lo vado a trovare mi siedo accanto a lui e gli parlo a lungo con voce sommessa, come gli è sempre piaciuto. Mi guarda con i suoi occhi d’un azzurro ciel sereno ma non mi risponde. Non mi risponde più! L’ultima volta che l’ha fatto risale a tre anni fa ed ho ancora nella testa la dolcezza di quel timbro di voce, pacato e rassicurante come il suono del violino e dell’arpa. . E’ la stessa voce di quando a Natale ci raccontava la leggenda di Don Parretta, o le sue avventure in Africa Orientale, al tempo della conquista dell’Impero in Etiopia, nel lontano 1936, ed era poco più che un ragazzo. Gli piaceva raccontare mentre mia madre spadellava di tutto e di più e noi sapevamo che bastava dargli il la per farlo partire in quarta, felicissimo di poter raccontare piccoli o grandi episodi che hanno segnato la sua giovinezza. Che dolcezza quei giorni di Natale! Tre anni fa, ma non era Natale, era maggio, l’ho provocato, meglio, l’ho stimolato, e mi ha fatto l’ultimo regalo, perché il suono della sua voce mi si è stampato in testa per sempre.

Lo sai che oggi ricorre l’anniversario della conquista dell’Etiopia?

 No, non me lo ricordavo, sono troppo vecchio io per ricordarmi queste cose e i libri non li leggo più per la vista. Allora ero giovane e per la Patria io e tutti gli altri come me eravamo disposti anche a morire. Oggi voi giovani la pensate diversamente. Che meraviglia! Io per lui ero giovane, perché i figli restano giovani per l’eternità.

Che ricordi hai della guerra in Abissinia?

 La guerra è una brutta cosa, perché muoiono sempre tante brave persone, ed io ne ho viste morire tante e poteva capitare anche a me. Comunque sia, anche in quelle condizioni ci sono stati dei momenti e degli episodi che ricordo volentieri.

Me ne puoi raccontare qualcuno?

Vuoi che te ne racconti qualcuno? Ti accontento, così mi riposo un po’ anche io. E’ da questa mattina all’alba che sono curvo per togliere le erbacce dall’orto. Eravamo ad una ventina di chilometri da Tobruk e ci eravamo appena accampati dopo una lunga giornata di marcia nel deserto. Nella mia tenda eravamo io ed altri cinque commilitoni di cui, però ricordo il nome solo di uno. Si chiamava Ciro, Ciro Bonanni ed era un napoletano sempre allegro. Eravamo diventati buoni amici e a me piaceva la sua compagnia perché con il suo spirito mi aiutava a superare i momenti di nostalgia per la famiglia lontana. Ci eravamo appena sdraiati sulla branda quando improvvisamente entrò il Tenente e ci disse che due di noi sarebbero dovuti andare in perlustrazione fuori dal campo, perché a due chilometri da lì era stata segnalata la presenza di una pattuglia nemica. Tirammo a sorte e vennero fuori il mio nome e quello di Ciro. Pur rammaricandomi della nuova fatica, fui contento che il mio compagno fosse Ciro.

 E dopo cosa successe?

 Era sera, ma c’era ancora molta luce. Col “91” in spalla, il fucile di allora, uscimmo dal campo e ci avviammo verso una zona alberata. Del nemico nemmeno l’ombra, ma eravamo vigili, benché fossimo anche molto stanchi. Oltre gli alberi c’era una radura con sterpaglie e piccole dune pietrose. Sentimmo un rumore e ci sdraiammo in un avvallamento del terreno restando immobili per almeno una decina di minuti. Piano piano, alzammo la testa, ma vedemmo solo che ad una cinquantina di metri da noi un giovane negro in borghese stava armeggiando con un secchio ed una corda attorno a quello che pensammo dovesse essere un pozzo d’acqua. Era, infatti, un pozzo d’acqua e lui stava riempiendo un otre di pelle di capra. Mi rilassai e cercai di smaltire la tensione, ma mi accorsi che Ciro stava imbracciando il fucile per sparargli. “Che fai, disgraziato? Non vedi che non è un soldato nemico?”, gli dico con la voce strozzata per non farmi sentire dal negro. “E che mi importa”, mi risponde quell’anima nera, “non sia mai detto che sono venuto in Africa a conquistare l’Impero e che me ne torni in Patria senza aver ammazzato nemmeno un negro!” “Ma che dici, disgraziato! Quello non è un figlio di mamma come sei tu e come sono io?” gli dico io col cuore in gola. “Sì, ma io cosa racconterò quando ritornerò a casa?” “Guarda, se tu spari al negro, io sparo a te, non scherzo!” Deve aver avuto paura che lo facessi davvero, ripose il fucile e si mise l’anima in pace. Dopo qualche minuto, il giovane si allontanò col suo otre pieno d’acqua.

 Qualche altro episodio che ti viene in mente?

Tanti, ma ti dirò di quella volta che con altri due commilitoni fummo invitati a cena da una famiglia del posto. Ce n’è un altro, quello delle bombe a mano, ma se ci penso, mi tremano ancora le gambe. Ti racconto prima quello dell’invito a cena, perché è stata una vicenda seria ed imbarazzante, ma anche un po’divertente. Eravamo in perlustrazione, come al solito, e girando di qua e di là, arrivammo ad una piccola fattoria con due o tre asini, poche capre ed un dromedario. Salutammo con la mano il vecchio contadino che stava aggiustando la palizzata del recinto degli animali e la donna che era con lui, forse sua moglie. Mentre inchiodava una tavola di legno, alzò la mano per rispondere al nostro saluto ed un pezzo della palizzata crollò a terra. Noi corremmo per aiutarlo e in quattro e quattr’otto lo aiutammo a sistemare le cose. Nel congedarci, il contadino disse che avrebbe avuto piacere di averci suoi ospiti a cena nella sua povera casa. Gli rispondemmo che eravamo in servizio e non potevamo accettare, ma egli insistette e disse che sarebbe stato onorato di presentarci la sua famiglia. Ci strappò la promessa che alla fine del servizio saremmo ritornati per salutare tutta la famiglia. Arrivammo verso le otto e fummo accolti al centro di uno stanzone privo di mobilia, ad eccezione di un grande letto e di qualche panca. Dietro ad una tenda la donna era intenta a cucinare qualcosa di molto aromatico a giudicare dal profumo e, in trasparenza, si vedevano le fiamme del fuoco a legna sotto un pentolone. Al centro della stanza era stata stesa per terra una tovaglia a quadri e attorno c’erano sei o sette cuscini. Il vecchio Abdullha, si chiamava così, ci fece accomodare sui cuscini e, appena seduti, comparvero altri tre giovanotti: i suoi figli. Inchini e cenni col capo, ma tutti in rigoroso silenzio. Arrivò la donna con una enorme zuppiera piena di una brodaglia scura e densa in cui non sapevamo cosa ci fosse. Abdullha ci invitò a cominciare e noi ci guardammo smarriti e confusi. Nessuno di noi aveva voglia di mangiare quella roba, ma anche volendo, non avremmo saputo come fare, perché mancavano le posate. Il vecchio, per incoraggiarci, affondò le dita nella zuppiera e cominciò a portare alla bocca pezzetti di carne gocciolanti, con le dita grondanti e l’inevitabile sbrodolamento sulla barba bianca. Anche i figli iniziarono le operazioni e tutti ci facevano segno con la mano per sollecitarci ad immergere a nostra volta le dita nella brodaglia. Cirò risolse l’imbarazzante situazione e fu un bene per tutti, perché il nostro rifiuto sarebbe stato preso come un’offesa gravissima. “Sapete, Abdullha, la nostra religione, ci vieta di mangiare fuori casa quando il nostro Paese è in guerra. Per noi militari la nostra casa, adesso, è la caserma, perciò non possiamo trasgredire le leggi della nostra religione. Credo che anche voi siate rispettosi dei vostri comandamenti e potete capirci. Noi siamo venuti a casa vostra perché siete stati gentili ad invitarci e non volevamo essere scortesi, però adesso dobbiamo salutarvi per ritornare al campo. Il vecchio si complimentò con noi per la nostra serietà e ci congedò con un bellissimo inchino.

 Simpatico davvero questo ricordo. E le bombe a mano?

Già, le bombe a mano! Quella volta me la sono vista brutta davvero, ma anche lì c’è stata una situazione quasi comica. Gli inglesi ci fecero prigionieri e ci portarono in un grande cortile per la perquisizione. Ci misero in fila ed un caporale altro e grosso come una montagna cominciò a perquisirci. Quando arrivò da me, mi mise la mano nella tasca sinistra, poi in quella destra e si impossessò della bomba a mano che avevo nella destra. Passò al commilitone dopo di me ed io richiamai la sua attenzione per dirgli che nella tasca interna del giubbotto ne avevo altre due. Il segno del due l’ho fatto con l’indice ed il medio della mano sinistra alzati, ma l’inglese, rosso di rabbia, mi puntò la baionetta nello stomaco premendo con forza. Non capivo perché, ma avevo paura. Continuavo a tenere le dita in quel modo e con la testa gli facevo cenno di guardare nel giubbotto. Niente da fare, l’inglese era furibondo e stava per ficcarmi l’arma nello stomaco. frontUn suo superiore si accorse della scena, capì cosa intendessi dire, lo spinse da una parte e mi perquisì nelle tasche del giubbotto. Tirò fuori le due bombe e solo allora venne chiarito l’equivoco. Insomma, io con quel gesto delle dita avevo imitato il segno di vittoria di Churchill e l’inglese si era imbufalito, perché il prigioniero ero io, non lui. Alla fine, però, fui ricompensato con una energica pacca sulla spalla per la mia lealtà. Adesso, però, devo tornare nell’orto perché si è fatto tardi. In un’altra occasione ti racconterò qualche altra cosa, va bene? Mio padre mi ha raccontato tre episodi, un po’ tristi e un po’ divertenti, ma fanno parte del suo patrimonio di ricordi e non ha nessuna importanza sapere che il terzo episodio, quello delle bombe a mano, l’ha vissuto successivamente agli altri, sempre in Africa, o in altra zona di guerra, ma da “Richiamato”, come si diceva allora. Che importa? Sono sempre i suoi ricordi e l’ordine di tempo non conta nulla.

Buon Natale, pa’!

9 Commentia“L’ultima chiacchierata con mio padre.”

  1. Mi ha commosso questo tributo d’affetto di un figlio verso il vecchio padre perchè, purtroppo, nel mondo in cui viviamo, non è scontato che i figli abbiano tempo e voglia di rendere onore e merito agli anziani, anche se genitori.
    La cosa che più mi ha colpito, però, non sono i ricordi di guerra del vecchio padre, pure interessanti ed originali, ma il saporaccio del torrone di Natale che il padre faceva con tanto impegno ma con poco successo a giudicare dalle reazioni dei figli. Ed oggi il ha nostalgia di quel torrone e per me questo è un atto d’amore nei confronti del padre. Tanto di cappello!

  2. Maria Teresa // 25 dicembre 2015 a 21:36 // Rispondi

    Bellissima e questa “chiacchierata” tra padre e figlio!
    Eccezionale soprattutto la memoria così precisa di eventi passati in una persona di (allora) quasi cento anni.
    Io sto vivendo con tanta tristezza le “chiacchierate” con mia sorella che ha ormai perso quasi completamente il ricordo degli ultimi 60 – 70 anni della sua vita (adesso ne ha 82).
    Passiamo ore ed ore a guardare fotografie di luoghi e di persone nel tentativo di risvegliare qualche ricordo, che sembra venir fuori, ma che cinque minuti dopo è già svanito….
    Mi dispiace che queste tue chiacchierate si siano interrotte (da parte di tuo padre) tre anni fa, ma tu continua a parlargli… certamente anche a lui sta bene così, anche a lui sta bene averti accanto e sentire la tua voce.

  3. Grazie Maria Teresa, ne sono convinto anche io.
    Signor Romolo, il saporaccio di quel lontano torrone si è trasformato nel tempo in una prelibatezza straordinaria, grazie.

  4. «Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.» [Dt 5,16]
    Dei «Dieci Comandamenti» questo è il solo che sia accompagnato anche da una promessa: la longevità. Il padre di Enzo Movilia lo avrà certamente rispettato, il figlio, giovane «in pectore», con questa sua tenera esternazione mostra di essersi messo da tempo sulla stessa strada. Naturalmente — è lecito immaginarlo —, oltre che agli affezionati della «Voce di tutti», il messaggio sarà stato in primis indirizzato ai membri della propria famiglia.
    La forza e il fascino di questo comandamento si fonda su uno dei tanti paradossi dell’esistenza umana: «Ah, se la gioventù sapesse… Ah, se la vecchiaia potesse!»
    Se i giovani nascessero già saggi, non avrebbero il dovere di rispettare gli anziani. Giungeranno anch’essi alla saggezza, ma quando ormai non avranno più la forza necessaria per esercitarla, se non spiritualmente, ad esempio nella forma affabulante del racconto, come faceva ieri Movilia Padre, come ripete oggi Movilia Figlio, come ricorderanno, si spera, i nipoti domani. Si possono rievocare i fatti più diversi, fucili, bombe a mano, bolliti indigesti, oppure un particolare torrone fatto in casa, la costante sarà sempre la stessa: è dolce ricordare ciò che fu difficile da sopportare.
    Fa parte essenziale di questa chiacchierata tra il vecchio-fanciullo e il giovane-vecchio il fatto che essa sia stata rievocata proprio nel giorno del Santo Natale. La sacralità del non dicibile resti sullo sfondo: al pari del Bambin Gesù, ciascuno nasce già con la propria croce, poi, come afferma l’adagio popolare, «se vuol vivere sano e lesto, dovrà farsi vecchio un po’ più presto».
    Almeno per un giorno, resti tra parentesi anche la scettica lucidità della cornacchia: benché talvolta i vecchi si ostinino a vivere come dei fanciulli elevati al quadrato, resta il fatto che la vecchiaia è di per sé una malattia.
    Infine il paradosso dei paradossi dell’auspicata longevità è che la vecchiaia, quando è lontana, ognuno a modo suo se l’augura, quando poi arriva veramente, la biasima. Ma questa è un’altra storia.

  5. Caro Enzo, inizio in modo indegno considerata la tua elevatura culturale, morale e sociale,spero anche economica, ma il tuo sig. padre viene chiamato “don Ninuzzu”, e non Nino. Mi permetto perché in Africa erano insieme a mio padre, due persone a me molto care e che rimarranno sempre nei miei ricordi, persone buone, miti, umane grandi lavoratori e che erano sempre pronti ad aiutare il prossimo. Non nego che mi ha commosso fino alle lacrime lacrime sai con l’età si diventa deboli. Ti confesso che fin dal mio arruolamento nella preclare Arma dei Carabinieri dal primo giorno della mia partenza con la valigetta di cartone da Palizzi a Catanzaro poi a Roma e Campobasso ho sempre ed ancora oggi porto con me nel portafogli la foto di mio padre con altri suoi commilitoni in Africa. Sono un uomo fortunato ad aver conosciuti entrambi due persone a dire meravigliosi e dire poco. Le parole che ancora oggi ricordo sulla guerra del mio povero papà che da un pò non è tra noi tranne che nel cuore e nella mente erano: Chi vuole la guerra prima che gli venga a casa sua. Grazie Enzo con affetto e amicizia fraterna Toto

  6. Che bello ascoltare la voce che esprime sentimenti sani e genuini di bontà! In quest’epoca di tanto materialismo leggere queste belle storie di bontà e amore rasserena gli animi e ci aiuta a riflettere sulla condizione della nostra vita e ci porta a migliorare la nostra esistenza. Grazie Enzo

  7. In questo periodo di Natale sono particolarmente apprezzati i ricordi legati alla famiglia. E chi è sopravvissuto ai genitori, da lunga pezza ormai, trova una particolare emozione a rievocare situazioni legate alle proprie radici. I ricordi di guerra di mio padre (l’ultima guerra quella terminata nel ’45) sono solo ricordi di prigionia in un campo di lavoro situato a Graz che accoglieva militari italiani catturati dai tedeschi all’atto dell’armistizio fra Italia e Alleati. Mio padre, carabiniere, fa preso al suo ingresso in caserma mentre andava a riporre in armeria il mitra in dotazione, per evitare che fosse ritrovato in casa dai tedeschi. Ricordi diversi da quelli africani di tuo padre, Enzo, ricordi di freddo e fame. Con il tuo nostalgico racconto me li hai fatti rivivere per un momento, in questi giorni di più di sessant’anni fa dall’accaduto, ma pare sia passato un millennio.

  8. Gabri e Massimo // 1 gennaio 2016 a 23:41 // Rispondi

    Bel racconto che a Natale assume ancora più sapore, da raccontare a figli e nipoti per tenere vivo il ricordo (brutto) della guerra, di (bei) tempi passati e di affetti presenti. Buon anno a tutti , aspettiamo il seguito.

  9. Che bei racconti Enzo. Ho riletto tutto due volte per apprezzare meglio la tenerezza e dolcezza nelle tue parole per descrivere tuo Padre e i suoi bei ricordi.
    Aspetto con ansia altri tuoi racconti

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