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La beata Rosa da Viterbo

Balletta  “Patrimonio orale e immateriale dell’umanità”. Così, nel 2013, l’Unesco ha definito il trasporto della Macchina di Santa Rosa, dando rilievo universale ad una tradizione che esprime l’anima antica della città di Viterbo. Santa Rosa “è” Viterbo, la sua complessa identità i cui protagonisti sono papi, imperatori e capitani del popolo, identità che ancora si respira nel fascinoso tessuto medioevale urbano. E su tutto traspare l’immagine di Rosa, morta ancora quasi adolescente e poi canonizzata da Callisto III, ragazza virtuosa che visse in un periodo storico difficile, dove alle eresie faceva da controcanto la lotta fra papa e imperatore, quel Federico II di Svevia scomunicato da Gregorio IX e Innocenzo IV.

  Non si sa molto di Rosa, le varie biografie scritte nel tempo hanno spesso un sapore decisamente agiografico, la più attendibile è quella redatta dal padre conventuale Giuseppe Abate a 700 anni dalla morte. “Santa Rosa da Viterbo, terziaria francescana” oltre a rileggere criticamente le successive Vite, dal medioevo al XVII secolo, delinea con maggior chiarezza il ritratto della Santa. E’ vero che i dati biografici non sono molti, le fonti restano sempre avare, ma ciò che risalta è che nel breve arco del suo cammino terreno, appena 18 anni (1233-1251), Rosa dedicò tutta se stessa al bene della comunità. E questa, alla sua scomparsa, ne decretò il culto, che si consolidò nel tempo, fino ad incarnarsi simbolicamente nella Macchina trasportata a spalla dai Facchini per le vie del centro storico.

  “Il tesoro di Santa Rosa. Un monastero di arte, fede e luce”, così la bella mostra organizzata nel convento viterbese delle Clarisse, accanto alla chiesa dove, in un’urna, riposa il corpo della Santa. Mostra che suggella i molti e delicati restauri che hanno interessato il complesso monastico, fondato nel 1235 e poi ristrutturato in fasi successive. Nel secolo XVII è andato purtroppo perso il ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli  (in parte riprodotti in penna ed acquerello da Francesco Sabatini nel 1632), ma l’insieme, nella sua raccolta bellezza, seduce comunque il visitatore. E subito, dopo essere passati accanto alla monumentale urna barocca di Giovanni Giardini, che racchiude il corpo di Rosa, ecco la Madonna del latte e Sant’Antonio,  dolcissimo affresco su tegola del Balletta, metà del XV secolo (suo anche il magnifico polittico nella chiesa dove più si avvertono suggestioni di scuola senese ed umbra).

refUltCena  Due tele di rilievo, una Sant’Orsola del Cavarozzi, e la Madonna di Loreto, entrambe nei modi del Pomarancio, poi si entra nel monastero. Molto interessante l’affresco sulla lunetta interna del refettorio, un’Ultima Cena di notevole forza espressiva, con Giuda rivolto verso l’esterno, motivo abbastanza inedito per l’epoca. Questo ed altri affreschi, gli ovali laterali, Orazione nell’orto e Andata al Calvario e, di contro, un riquadro con una Madonna in Gloria e Santi sono da attribuirsi a pittori della cerchia del Cavalier d’Arpino. Nella sala figurano anche documenti preziosi che narrano la storia del Monastero, come, in ordine cronologico, l’atto di vendita del 1236 dove il vescovo si rivolge alle “moniales incluse Ordinis Sancti Damianis” (poi diverrà convento delle Clarisse), le lettere di Gregorio IX, 1238, relative a doti e successioni, il Privilegio di papa Innocenzo IV, 1244, e poi di Alessandro IV, 1256, in favore dell’ “Ordo Monasticus”  la cui regola verrà scritta da Urbano IV nel 1263, sancendo la nascita delle Clarisse, il codice membranaceo del 1457 sul processo di canonizzazione, il registro dello stesso anno in cartaceo con lettere e sigillo di 13 comuni della Tuscia viterbese in favore della canonizzazione. E, senz’altro il documento più significativo, oltre alla Messa propria di Santa Rosa, pagina di codice miniato del XVI secolo, è la pergamena in scrittura gotica cancelleresca con la biografia di Rosa, seconda metà del XIII secolo.

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  Scopriamo poi il quotidiano delle monache, rappresentato dalle ceramiche sia devozionali che, per così dire, personalizzate, come le ciotole col nome della sorella. Sono pezzi di pregevole fattura, medioevali e rinascimentali, ceramiche semplici ed invetriate, produzione spesso umbra, Deruta, piatti, brocche, albarelli da farmacia. Come corollario l’Abadessato di suor Orsolina Rosolini (1636-37) e suor Aura Celeste Lozzi (1697-98), in cartaceo, due registri contabili che danno il polso della vita del Monastero, con entrate ed uscite in funzione del buon governo della comunità conventuale. Infine l’oreficeria sacra, dove risaltano in particolare un candeliere in metallo dorato a triplice sospensione, donato nel 1723 dal vescovo della diocesi di Cuzco, Perù, a testimonianza della diffusione del culto della Santa, ed un incredibile ex voto a forma di caravella in argento ricavato da una grande conchiglia in madreperla (del tipo nautilus).

  Una serie di ex voto lignei chiude la mostra con il suo  sapore di pietas popolare che peraltro si rinnova nel Trasporto della Macchina, il 3 settembre, affidata al Sodalizio dei Facchini, per i quali portare sulle spalle 150 kg. va oltre lo sforzo fisico e assume un significato quasi iniziatico. E allora bisogna davvero ragionare in termini di antropologia culturale, dove la Tradizione è vissuta nel suo momento rituale, come purificazione o “decodificazione del negativo”, come diceva il grande Ernesto De Martino.

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“Il Tesoro di Santa Rosa. Un Monastero di Arte, Fede e Luce”, mostra organizzata Dal Mibact e città di Viterbo in sinergia con il Monastero ed il Centro Studi Santa Rosa. Fino al 6 gennaio 2018, tutti i giorni h.9,30-12,30 e 15,30-20, dal 14 settembre h.15,30-19. Per informazioni 0761.342887 e monasterosantarosa@alice.it – www.sabap-rm-met.beniculturali.it . Da citare il catalogo edito da Gangemi con approfonditi saggi critici e splendide illustrazioni.

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