Anna Maria Fabriani, la mistica del quotidiano
Anna Maria Fabriani, la mistica del quotidiano
di Antonio Mazza
Avverti subito qualcosa di familiare appena entri nella sala dove sono ospitate le opere di Anna Maria Fabriani, pittrice centenaria che si è formata nel dopoguerra, a Roma, quando la luce ed il colore si combinavano sulla tela esprimendo una pudica ed al contempo esuberante voglia di vivere. Sì, la Scuola Romana, giunta nella sua fase conclusiva ma pur sempre significante (incalzano nuove stagioni pittoriche, come l’Informale), che alla Fabriano giunge filtrata da Carlo Socrate, del quale diventa allieva (Villa Strohl-Fern, mitico cenacolo d’arte situato nel quartiere pinciano). E del maestro ne coglie l’essenza, quel gusto fine dei volumi e della componente cromatica, come si può dedurre dalla mostra in corso a Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi (e la ricca pinacoteca con opere della Scuola Romana e del ‘900 italiano). “Anna Maria Fabriani. Riverberi e trame della Scuola Romana”, a cura di Sabina Ambrogi, con testo critico di Giulia Ambrogi.
Eccoli i primi frutti, che già denotano padronanza figurativa e cura del particolare: “Maria Magris”, la madre della pittrice, e “Rosetta”, in due versioni, 1948 e 1953. Colpiscono per quel segno lieve, un po’ felpato, in contrasto con l’energia vitale che promana dai personaggi, sorpresi in una pausa del loro quotidiano. E così nel filone paesaggistico e nelle nature morte, il tratto sicuro ma delicato, che conferisce all’insieme una densità dove colore e luce creano effetti di un realismo un po’ fiabesco. Vedi “Grigio su grigio” (1958) o il simpatico quadro con i savoiardi, che richiama una natura morta di Carlo Socrate, dove i biscotti figurano accanto ad una teiera. E la stessa attenzione al particolare che il maestro persegue nella rappresentazione degli oggetti sarà la costante di tutta la produzione pittorica di Anna Maria Fabriani (qui esposte una quarantina di opere).
Ma con uno strappo, una lunga pausa, il pennello a riposo per quattro lustri, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’90. E’ il periodo in cui Anna Maria si dedica alla famiglia ed alla scuola, come insegnante, periodo che s’interrompe bruscamente con la morte del marito, Silvano Ambrogi, nel 1996. Di lui, scrittore, commediografo e sceneggiatore è d’obbligo citare “I burosauri”(1962), caustica immagine del mondo della pubblica amministrazione, con i suoi codici oscuri ed autoreferenziali che poco o nulla hanno di umano (e da allora non molto è cambiato, anzi, in taluni casi la versione elettronica della burocrazia ha un che di kafkiano). Sulla spinta del ricordo Anna Maria riprende un quadro iniziato nel 1960 e lo completa nel 1997, “Silvano”, un ritratto dove traspare tutta l’interiorità del suo compagno, non solo per la posa, tipica da intellettuale, seduto con un libro aperto, la biblioteca alle spalle e la lettera 22 sulla scrivania, ma per lo sguardo, attento, riflessivo, che disvela un mondo in sé. Opera di grande spessore psicologico e tuttavia rappresentata con una certa umiltà di fondo, espressa con finezza di toni ed una sobria eleganza formale.
E’ la sua impronta stilistica che, in questa seconda e proficua fase pittorica, si afferma con maggior forza che in passato, con la camera da letto trasformata in atelier dove dipinge e dove, come dice la figlia Sabina, “andava a dormire con l’odore di trementina”. Un quadro dopo l’altro, nella ricerca di una perfezione di linguaggio come equilibrio di volumi, luce, colore, una sintesi alla quale lavora fino all’ultima opera, nel 2018. E sono figure umane, “Cecilia” (2003), il ritratto della figlia e logo della mostra, perfetto nella sua armonia cromatica, paesaggi, come “Controcampo la casa di Migliarino” e “Campo 1 la casa di Migliarino”, entrambi del 2003, una pastosità d’insieme che non si limita alla semplice rappresentazione ma riesce ad esprimere e far percepire quel senso di serenità che dà appunto la campagna.
Una sensazione che si ripete nelle nature morte, la quieta geometria degli oggetti esaltata da una pennellata morbida, quell’eleganza di cui s’è detto, come nel gustoso “Scorfano” (1998), che risalta per il colorito intersecarsi di forme, alla stessa stregua di “Pere su alzata e tenda rossa” (1998). E, ancora, il luminoso “Magnolie” (2002), il plastico “Zucchine” (2002), “Cena improvvisata” (2002), che ha davvero il sapore del quotidiano, con le classiche improvvisate fra amici , l’arioso “Colazione in Calabria” (2003), la macchia di colore di “Mele” (2005). Tutto appare nitido e preciso, perché, come afferma ancora Sabina Ambrogi, per la madre “la pittura era un rito unico, metodico, perfino un accanimento ossessivo”. Vero e si percepisce, ma ogni cosa nella giusta misura, senza derive di tipo manieristico, ed emblematico in tal senso risulta il titolo di un’opera, “Metafisica dei limoni” (2000). Ovvero penetrare nel tema narrato sulla tela, vivere la ricerca dell’assoluto che, nella visione della Fabriani, le nature morte con quel forte sapore di intimismo domestico, si potrebbe ben definire “mistica del quotidiano”. Di riflesso vien da pensare a Chardin e Morandi, le loro nature morte in replica, ma non, ovviamente, per riscontrarvi influssi stilistici od altro, bensì per l’idea di fondo, la reiterazione dell’oggetto fino a coglierne l’intima essenza. Ed è il messaggio che trasmette Anna Maria Fabriani, con le sue cento splendide primavere.
Anna Maria Fabriani. Riverberi e trame della Scuola Romana” a Palazzo Merulana fino al 6 ottobre. Da mercoledì a domenica h.12-20. Biglietto euro 12 intero 10 ridotto. Per informazioni 0639967800 e www.palazzomerulana.it
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